Bergoglio e la scelta di una Chiesa delle «periferie»

Papa Francesco è stato «il profeta della misericordia» e, insieme, l’uomo che ha chiamato incessantemente i potenti del mondo a rendere conto delle scelte che calpestano la dignità degli esseri umani: la guerra, i muri innalzati contro i migranti, le porte sbattute in faccia ai più poveri, agli ultimi.
Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio è perfettamente racchiuso tra la preghiera per i morti in mare, a Lampedusa, luogo simbolo del primo viaggio apostolico, e la benedizione della folla in piazza San Pietro a poche ore dalla morte. Quando, pure immobilizzato e costretto sulla sedia a rotelle, Francesco ha deciso di tornare ad abbracciare, ancora una volta, il popolo di Dio, fedele al suo ideale di pastore insofferente ai cerimoniali ingessati e alle fredde liturgie.
Come ha scritto ieri Andrea Tornielli, durante gli anni del suo regno, «il 265. successore di Pietro ha mostrato il volto di una Chiesa vicina» alla gente, «capace di testimoniare tenerezza e compassione, accogliendo e abbracciando tutti, anche a costo di correre rischi e senza preoccuparsi delle reazioni dei benpensanti. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade - aveva scritto Francesco pochi mesi dopo l’elezione nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium - invece di una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”». Il clericalismo è stato il primo e più ostico nemico da battere per Francesco. L’idea cioè che cardinali, vescovi o semplici preti ritenessero di essere autosufficienti e di poter esercitare le proprie funzioni alla stregua di un piccolo o grande potere.
Una Chiesa «ai margini»
L’eredità principale di Francesco - al di là delle riforme strutturali che pure sono sicuramente destinate a trasformare in profondità la Curia romana - sarà senza dubbio la concezione periferica della Chiesa. Una Chiesa ai margini. Geografici, e non solo.
L’idea di periferia è stata segnata in maniera visibile, ad esempio, dai 47 viaggi apostolici compiuti dal Papa argentino in 66 Paesi, molti dei quali agli «angoli del mondo». Luoghi in cui vivono minoranze cattoliche minacciate o in espansione: Congo, Sud Sudan, Bangladesh, Myanmar, Giappone, Mozambico, Madagascar, Filippine. La formazione di Francesco, gesuita sudamericano, la sua allergia al potere consolidato, allo schema occidentale democrazia liberale-capitalismo, lo hanno tenuto lontano da Paesi quali la Francia, il Regno Unito, la Spagna o la stessa Argentina, dove in realtà non è voluto tornare per non rinfocolare antiche controversie.
Ma la volontà di insediare la Chiesa ai margini del mondo è apparsa in modo altrettanto chiaro nella costruzione, metodica, del sacro Collegio. E nella scelta di non assegnare la porpora guardando alla storia o alla tradizione. In Italia, ad esempio, sedi arcivescovili quali Milano, Venezia, Firenze, Genova, Palermo non sono oggi rette da un cardinale. Il salto, rispetto al passato, anche recente, è gigantesco. Se si pensa che, soltanto nel secolo scorso, proprio da Milano e da Venezia sono giunti addirittura 5 Papi.
Nel 2013, quando fu eletto Bergoglio, Asia e Oceania avevano 11 cardinali elettori. Oggi sono 23. E alcuni di loro giungono da zone che mai, in passato, sono state sedi cardinalizie, come Timor Est, Singapore o la Mongolia, Paese nel quale, in realtà, svolge la sua missione apostolica il 50.enne missionario piemontese Giorgio Marengo, il secondo cardinale più giovane dell’intero sacro Collegio.
Lo «spostamento gravitazionale» della Chiesa di Francesco verso la periferia, giurano in molti, genererà una dinamica geopolitica completamente diversa nell’elezione del successore. È possibile, anche se le categorie “laiche” non si attagliano alla dimensione universale della Chiesa cattolica. Parlare di geopolitica riferendosi al conclave potrebbe essere un errore ed è sicuramente una forzatura.
Cambio di direzione
Resta il fatto che il cambiamento dello schema di direzione della Curia è stata una delle cause della rottura di Francesco con una parte importante della gerarchia vaticana e con alcune grandi conferenze episcopali, in particolare quella degli Stati Uniti. Rotture determinate anche da questioni dottrinali, quali l’apertura ai divorziati o al diaconato femminile e la «sospensione del giudizio» sugli omosessuali. Francesco è stato addirittura accusato di eresia: dall’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, nel libro In buona fede. La religione nel XXI secolo; e da un altro gruppo di cardinali ultraconservatori - i tedeschi Joachim Meisner e Walter Brandmüller, lo statunitense Raymond Burke e l’italiano Carlo Caffarra - i quali nel 2016 chiesero chiarimenti (Dubia) sull’esortazione post-sinodale Amoris Laetitia con cui, a loro avviso, si era aperta la porta alla comunione ai divorziati.
Negli ultimi tre anni, attraverso il sinodo sulla sinodalità, Bergoglio ha inaugurato un periodo di ascolto ecclesiastico, probabilmente anche per segnare in maniera più decisa la necessità di accorciare le distanze tra le gerarchie e tra la Chiesa e il suo popolo. Il sinodo ha in parte deluso i progressisti, i cui esiti sono stati forse distanti dalle aspettative: alle donne sono stati conferiti, sulla carta, nuovi ruoli e poteri significativi, ad esempio nel processo di formazione interna ai seminari. Ma la questione del sacerdozio femminile non è stata nemmeno presa in considerazione.
Anche sull’aborto, Francesco ha continuato a sostenere con forza la posizione tradizionalmente intransigente della Chiesa. Ed è per questo, ma non solo, che sarebbe sbagliato considerare il papato di Bergoglio come un papato «liberale». E tuttavia, in ambiti significativi, il pontefice argentino ha esercitato una grande influenza «progressista», dentro e fuori la Chiesa. Pensiamo all’emergenza climatica o alla questione dei migranti.
L’enciclica Laudato Si’ del 2015, il cui sottotitolo recitava Sulla cura della nostra casa comune, offrì in maniera inaspettata alla riflessione generale una potente e serrata critica dell’effetto distruttivo del capitalismo sregolato sul pianeta. Sicuramente, l’analisi più poderosa e tagliente della Chiesa sulle implicazioni del riscaldamento globale. L’appello di Francesco ad ascoltare «il grido della Terra e il grido dei poveri» collegò, poi, le cause della giustizia ambientale a quelle della giustizia sociale. In particolare nel momento in cui Bergoglio sottolineò la responsabilità del mondo sviluppato di mitigare l’impatto sulle nazioni più povere del consumo insostenibile di risorse.
«Nessuno si salva da solo»
«Nel momento in cui la destra, in tutto il mondo, ha “armato” l’identità cristiana - ha scritto ieri il Guardian - questa dimensione del pontificato di Francesco è stata un correttivo e un atto di testimonianza cruciale. Integrata da uno sforzo per migliorare il dialogo interreligioso con l’islam, simboleggiato dall’incontro con il grande ayatollah Ali al-Sistani durante una storica visita in Iraq» nel marzo di quattro anni fa. E sunteggiata in due documenti tra i più belli e suggestivi di Bergoglio: l’enciclica Fratelli tutti del 2020, e Ritorniamo a sognare, una breve riflessione sulla pandemia di COVID. In entrambi questi testi, il concetto di «casa comune» è servito al pontefice argentino a «contrastare la politica polarizzante del nazionalismo xenofobo».
«Nessuno si salva da solo», ha scritto Francesco indicando la strada per un nuovo umanesimo in cui è necessario «lasciarsi toccare dal dolore degli altri». Un feroce atto d’accusa contro l’egoismo, il consumismo e l’egocentrismo occidentali che il papa è tornato a condensare nei silenzi e negli sguardi ammonitori indirizzati due giorni fa, nella domenica di Pasqua, al vicepresidente cattolico degli Stati Uniti, JD Vance.