Bernardino Regazzoni: «Eravamo al mare, con i nostri bambini, quando all'improvviso abbiamo notato l'acqua che saliva»
«Eravamo al mare, con i nostri bambini, quando all’improvviso abbiamo notato l’acqua che saliva». Vent’anni dopo, Bernardino Regazzoni è ritornato su quella spiaggia. Con la mente e con i ricordi. Ticinese, classe 1957, all’epoca del terribile tsunami che, il 26 dicembre del 2004, colpì l’intero sudest asiatico arrivando a lambire addirittura le coste dell’Africa orientale era ambasciatore in Sri Lanka e alle Maldive. «Nessuno, allora, sapeva con esattezza che cosa fosse uno tsunami». Già, un maremoto. «Ci trovavamo su una terrazza» prosegue Regazzoni. «Da lì, abbiamo raggiunto una collina». Quindi, l’arrivo dell’esercito. «La sera stessa ero in ambasciata». A lavorare.
Che cosa
resta, dopo tutto questo tempo, di quei giorni e dei mesi successivi?
«Innanzitutto,
il ricordo della paura. E di un fenomeno, lo tsunami, tremendamente vasto.
Soltanto in ambasciata, al telefono, ho potuto mettere assieme tutti i pezzi
del puzzle. In spiaggia, lì per lì, non potevo certo intuire la portata dell’evento
anche se, beh, una volta raggiunta la collina tramite una radiolina e la BBC
avevo captato che altri Paesi erano stati colpiti».
Era preparato
a un tale sconvolgimento?
«Affrontare
una catastrofe, che sia naturale o di altro tipo, fa parte del lavoro di un
diplomatico. Ogni evento, va detto, è diverso. E lo tsunami del 2004 in questo
senso è stato qualcosa di unico: nessuno di noi, come dicevo, ha potuto
rendersi conto nell’immediato di che cosa fosse successo».
Quali sono
state le sue prime mosse?
«Nel
coordinare l’azione, ho cercato in primis di capire dove fossero i nostri
concittadini. E se c’erano vittime. Abbiamo girato negli ospedali, ci siamo
coordinati sia con le ambasciate di altri Paesi, in uno sforzo congiunto all’insegna
della solidarietà reciproca, sia con Berna, a cui si rivolgevano i parenti. Il
lavoro è stato a più livelli. Dall’identificazione delle vittime all’evacuazione
dei sopravvissuti. Un lavoro intenso, di poche settimane, che poi ha lasciato
spazio alla ricostruzione delle aree colpite».
Quanto è stato
difficile, in un contesto di morte e devastazione, mantenere a freno le
emozioni e, soprattutto, riuscire a soddisfare tutte le richieste?
«Data l’urgenza,
e vista la portata della catastrofe, tutti noi siamo entrati in un tunnel di
eterno presente. Non c’era un prima né tantomeno un dopo. In quei casi, è importante
gestire momenti e situazioni con disciplina. Prevedendo dei turni di riposo. Al
fine di poter essere, poi, più efficaci. Se io e i miei collaboratori non ci
fossimo fermati, di tanto in tanto, per digerire quanto stavamo vivendo, ci
saremmo bruciati. Sia da un punto di vista fisico sia a livello psichico».
Riproponiamo
la domanda: che cosa resta, dopo vent’anni?
«L’aspetto
umano. Gli incontri con persone che, in quel momento, avevano bisogno, penso in
particolare a chi aveva perso un proprio caro. Il sentimento di essere stato
utile, anche in seguito nella ricostruzione. Resta l’azione, forte, diplomatica
come resta la risposta, straordinaria, della popolazione svizzera attraverso la
Catena della Solidarietà. Quando mi sono ritrovato a inaugurare una scuola,
ricostruita grazie alla generosità dei cittadini svizzeri, i canti dei bambini
mi sono arrivati direttamente al cuore. Mi sembra ancora di sentirli».
In
conclusione, dalle sue parole traspare un certo orgoglio. Come dire: siamo
stati in grado di aiutare chi aveva bisogno e lo abbiamo fatto «da svizzeri». È
così?
«Dirò due cose
al riguardo. La prima: il senso del servizio, del servizio pubblico nello
specifico, per me è sempre stata una cosa importante. Non soltanto in occasione
dello tsunami, ma nel mio quotidiano. L’orgoglio, nella fattispecie, credo sia
legato all’ampiezza e alla generosità con cui la popolazione svizzera ha
risposto a questa tragedia. La seconda: la qualità del nostro aiuto sul
terreno. Un aiuto capillare, controllato, con verifiche incrociate, in costante
dialogo con l’economia locale».