L'intervista

Bernardino Regazzoni: «Eravamo al mare, con i nostri bambini, quando all'improvviso abbiamo notato l'acqua che saliva»

Il 26 dicembre del 2004, quando lo tsunami sconvolse il sudest asiatico arrivando a lambire le coste dell'Africa orientale, il ticinese era ambasciatore in Sri Lanka e alle Maldive
©Rafiq Maqbool
Marcello Pelizzari
23.12.2024 22:09

«Eravamo al mare, con i nostri bambini, quando all’improvviso abbiamo notato l’acqua che saliva». Vent’anni dopo, Bernardino Regazzoni è ritornato su quella spiaggia. Con la mente e con i ricordi. Ticinese, classe 1957, all’epoca del terribile tsunami che, il 26 dicembre del 2004, colpì l’intero sudest asiatico arrivando a lambire addirittura le coste dell’Africa orientale era ambasciatore in Sri Lanka e alle Maldive. «Nessuno, allora, sapeva con esattezza che cosa fosse uno tsunami». Già, un maremoto. «Ci trovavamo su una terrazza» prosegue Regazzoni. «Da lì, abbiamo raggiunto una collina». Quindi, l’arrivo dell’esercito. «La sera stessa ero in ambasciata». A lavorare.

Che cosa resta, dopo tutto questo tempo, di quei giorni e dei mesi successivi?
«Innanzitutto, il ricordo della paura. E di un fenomeno, lo tsunami, tremendamente vasto. Soltanto in ambasciata, al telefono, ho potuto mettere assieme tutti i pezzi del puzzle. In spiaggia, lì per lì, non potevo certo intuire la portata dell’evento anche se, beh, una volta raggiunta la collina tramite una radiolina e la BBC avevo captato che altri Paesi erano stati colpiti».

Era preparato a un tale sconvolgimento?
«Affrontare una catastrofe, che sia naturale o di altro tipo, fa parte del lavoro di un diplomatico. Ogni evento, va detto, è diverso. E lo tsunami del 2004 in questo senso è stato qualcosa di unico: nessuno di noi, come dicevo, ha potuto rendersi conto nell’immediato di che cosa fosse successo».

Quali sono state le sue prime mosse?
«Nel coordinare l’azione, ho cercato in primis di capire dove fossero i nostri concittadini. E se c’erano vittime. Abbiamo girato negli ospedali, ci siamo coordinati sia con le ambasciate di altri Paesi, in uno sforzo congiunto all’insegna della solidarietà reciproca, sia con Berna, a cui si rivolgevano i parenti. Il lavoro è stato a più livelli. Dall’identificazione delle vittime all’evacuazione dei sopravvissuti. Un lavoro intenso, di poche settimane, che poi ha lasciato spazio alla ricostruzione delle aree colpite».

Data l’urgenza, e vista la portata della catastrofe, tutti noi siamo entrati in un tunnel di eterno presente. Non c’era un prima né tantomeno un dopo. In quei casi, è importante gestire momenti e situazioni con disciplina

Quanto è stato difficile, in un contesto di morte e devastazione, mantenere a freno le emozioni e, soprattutto, riuscire a soddisfare tutte le richieste?
«Data l’urgenza, e vista la portata della catastrofe, tutti noi siamo entrati in un tunnel di eterno presente. Non c’era un prima né tantomeno un dopo. In quei casi, è importante gestire momenti e situazioni con disciplina. Prevedendo dei turni di riposo. Al fine di poter essere, poi, più efficaci. Se io e i miei collaboratori non ci fossimo fermati, di tanto in tanto, per digerire quanto stavamo vivendo, ci saremmo bruciati. Sia da un punto di vista fisico sia a livello psichico».

Riproponiamo la domanda: che cosa resta, dopo vent’anni?
«L’aspetto umano. Gli incontri con persone che, in quel momento, avevano bisogno, penso in particolare a chi aveva perso un proprio caro. Il sentimento di essere stato utile, anche in seguito nella ricostruzione. Resta l’azione, forte, diplomatica come resta la risposta, straordinaria, della popolazione svizzera attraverso la Catena della Solidarietà. Quando mi sono ritrovato a inaugurare una scuola, ricostruita grazie alla generosità dei cittadini svizzeri, i canti dei bambini mi sono arrivati direttamente al cuore. Mi sembra ancora di sentirli».

In conclusione, dalle sue parole traspare un certo orgoglio. Come dire: siamo stati in grado di aiutare chi aveva bisogno e lo abbiamo fatto «da svizzeri». È così?
«Dirò due cose al riguardo. La prima: il senso del servizio, del servizio pubblico nello specifico, per me è sempre stata una cosa importante. Non soltanto in occasione dello tsunami, ma nel mio quotidiano. L’orgoglio, nella fattispecie, credo sia legato all’ampiezza e alla generosità con cui la popolazione svizzera ha risposto a questa tragedia. La seconda: la qualità del nostro aiuto sul terreno. Un aiuto capillare, controllato, con verifiche incrociate, in costante dialogo con l’economia locale».

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