«Cara Svizzera, come puoi stare a guardare? Ecco cosa fa il regime in Iran»
Daria è il nome di mia mamma Anna. È la mia fidanzata Carlotta. È la mia collega Jenny. Daria è il nome di ogni donna che oggi vive in Occidente, se il tiro di dadi del destino l’avesse fatta nascere in Iran. Nel Paese mediorientale, che dal primo aprile del 1979 si chiama Repubblica islamica dell'Iran, un regime teocratico sciita in cui i diritti delle donne (e non solo) vengono sistematicamente calpestati, da mesi è in atto una sanguinosa rivoluzione. Il popolo combatte per la libertà dallo scorso 16 settembre, data di morte di Mahsa Amini, la 22.enne arrestata dalla polizia religiosa perché colpevole di non aver indossato correttamente l'hijab. La gente protesta nelle strade e il regime non sta certo a guardare, anzi. Le azioni di repressione delle forze di sicurezza hanno portato alla morte, al ferimento e all’arresto di numerose persone. Secondo le organizzazioni umanitarie le vittime sarebbero oltre 430, ma il bilancio potrebbe essere decisamente più grave. E il grido di aiuto della gente difficilmente esce dal Paese, a causa del blocco di Internet e della censura. Misure del silenzio che purtroppo l’Occidente sembra usare come scusa per pulirsi la coscienza, come a voler dire: «Non sappiamo quello che accade». Ma il mondo sa, e troppo spesso resta a guardare. Cosa vuol dire vivere in Iran nel 2022? Cosa significa essere una donna lì, dove senza velo si rischia la vita? Lo chiediamo a Daria (il suo vero nome è noto alla redazione), rifugiata politica in Svizzera, appartenente alla comunità iraniana in Ticino.
Daria,
parlaci di te: come sei arrivata in Svizzera? Come mai in Ticino?
«Sono nata
in Iran, a Teheran. Provengo da una famiglia che politicamente e intellettualmente
vuole la libertà del popolo iraniano. La mia famiglia non mi ha imposto nulla, ero
indipendente e libera dal punto di vista dei diritti umani. Ho dovuto lasciare il
Paese subito dopo aver terminato gli studi universitari perché ero contro la
dittatura della Repubblica islamica. Ho vissuto in Paesi diversi, poi
finalmente sono arrivata in Svizzera, nel 2019. Ora sono una rifugiata politica.
Per legge, le autorità elvetiche che si occupano dei richiedenti asilo decidono in quale cantone trasferire
ogni rifugiato, e io sono stata mandata in Ticino. Non è stata una mia scelta,
ma sono felice di essere qui, perché le persone in Ticino sono molto gentili e
umane. Ho scelto di rimanere in Svizzera perché è un Paese che rispetta i
diritti umani e crede nella pace nel mondo».
Sei riuscita
a contattare i tuoi amici e parenti? Cosa dicono della situazione in Iran?
«Il regime ha
tagliato Internet. Da allora, sono riuscita a parlare con la mia famiglia in
Iran solamente due volte per meno di 5 minuti. Sono molto preoccupata per la
loro sicurezza. Dato che tutte le chiamate sono controllate dal Ministero
dell'Informazione iraniano, non posso chiedere informazioni sulla situazione nel
Paese: è troppo pericoloso per le loro vite. Le persone che riescono a
comunicare usano filtri e VPN per connettersi a Internet. Ovviamente questo è molto
rischioso, ma sono coraggiosi e corrono questo rischio per trasmettere al mondo
la voce degli iraniani. Condividono foto e video (Daria ce ne ha mandati a
decine, alcuni veramente cruenti, ndr) della rivoluzione, dei feriti e degli
omicidi. Queste immagini vengono perlopiù diffuse su Instagram, con grandi
difficoltà ed enormi rischi, oppure vengono mandate ad amici che riescono a
girarle ai media internazionali. La rivoluzione è iniziata con il taglio dei
capelli e le sciarpe bruciate, ma oggi ha lasciato il posto alla rimozione dei
turbanti dei mullah. Loro sono quelli che hanno propagato
l'ideologia del terrore in Iran e nel mondo per 44 anni. Hanno persino uffici nei Paesi europei e cercano di reclutare i giovani. L’Europa e gli USA devono chiudere questi edifici, e anche quelle
moschee in cui viene insegnata la religione del terrore, come se fosse il
volere di Dio. Se non si ferma questa minaccia ci sarà una nuova stagione di pericolose ideologie religiose».
La morte di
Mahsa Amini è stata la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta, ma in Iran i
diritti umani vengono negati da decenni. Perché ora? Cosa sta succedendo nel Paese?
«Sono
trascorsi circa 70 giorni dall'inizio della rivoluzione, partita con le proteste delle donne iraniane. È una rivoluzione che cerca di porre fine a 44
anni di dittatura basata sul fondamentalismo islamico. Non è la prima volta che
il popolo iraniano si ribella al regime. Siamo stati “soffocati” per 44 anni,
abbiamo assistito a uccisioni, arresti, torture, inquisizioni, mancanza di
uguaglianza e mancanza di libertà persino nell’abbigliamento. Dopo il colpo di Stato
del 1978, molte persone sono state uccise e arrestate. Questa è una guerra, ed è
ancora in corso. Io sono nata esattamente nel 1978 e posso dire con certezza
che il colpo di Stato di quell’anno ha avuto l’effetto di bloccare il progresso
e la crescita economica del nostro Paese. L'Iran era un leader in Asia e l’Occidente,
in particolare gli USA, lo considerava una minaccia, così ha usato tutto il suo
potere per costruire una barriera al progresso, favorendo l’ascesa al potere di Khomeini.
L'ideologia basata sul fondamentalismo religioso, nascosta sotto il nome dell'Islam, si è
quindi diffusa in tutto il Paese. E della situazione venutasi a creare ne hanno
beneficiato i venditori di armi e i cartelli del petrolio, cioè tutti quelli
che hanno sostenuto l'attuale regime. Ovviamente la maggior parte dei sostenitori
agiva dietro le quinte: hanno promesso di voler sostenere il popolo iraniano,
ma in realtà hanno sostenuto la dittatura. Per 44 anni. Il popolo iraniano oggi
combatte perché non vuole più questa Repubblica islamica. Non è più accettabile
che vengano sostenuti gli assassini che sono al potere».
Cosa sta
facendo il mondo per aiutarvi? Chi sta dalla parte del regime?
«Il mondo sta dormendo.
Tutti i governi europei, quello americano e l’ONU dovrebbero aprire gli occhi.
Tutti loro sanno perfettamente cosa sta succedendo in Iran, ma non agiscono,
perché in Iran molti Paesi occidentali hanno grossi interessi economici. Se non
vogliono la caduta del regime in Iran, sarà il popolo a farlo cadere. L'ONU e i governi occidentali dovranno accettare il cambio di governo. Non si rendono
conto che il sostegno alla Repubblica islamica è pericoloso. Dove pensano che
vadano a finire quei soldi? Ci sono gruppi terroristici in tutto il mondo, la
maggior parte dei quali sostenuti dalla Repubblica Islamica. E l'ideologia del
terrore è ormai diffusa: la sicurezza in Europa e in America non sono più
quelle di un tempo. Intanto l'ondata di migranti continua ad aumentare. Russia e
Cina, invece, stanno dalla parte del regime iraniano. L'Iran fornisce alla
Russia i droni per distruggere l'Ucraina, e Mosca aiuta il governo a sviluppare il suo sistema nucleare per costruire la bomba atomica. Quello che
sta succedendo oggi è il risultato del colpo di Stato del 1978 e quindi i
governi occidentali hanno il dovere di rendere conto, non solo al popolo
iraniano, ma anche ai propri popoli, perché l’ideologia religiosa del terrore
in Iran è arrivata in Occidente e si propaga».
Come valuti il ruolo della Svizzera?
«La
Svizzera dice di essere neutrale. Ma cosa significa essere neutrali? Vuol dire stare
a guardare la gente che viene uccisa e poi restare in silenzio? La politica di
neutralità del Governo svizzero significa approvare dei crimini. Non si può
parlare di neutralità quando si tratta di diritti umani violati e quando c’è in
gioco la sicurezza dello stesso popolo elvetico. Credo che la Svizzera debba
porre fine a qualsiasi rapporto economico con la Repubblica islamica dell'Iran
perché in questo modo sta facendo affari di sangue. La Svizzera dovrebbe chiudere
oggi l'ambasciata iraniana a Berna e interrompere
il suo ruolo di mediatore tra Iran e USA».
La
neutralità consiste proprio nel ruolo di mediazione: la Svizzera è una finestra
sul mondo per il dialogo tra l’Iran e l’Occidente. Lo scopo è trovare soluzioni diplomatiche internazionali a crisi come quella che stanno vivendo gli iraniani…
«A cosa ha
portato finora? Siamo noi che lottiamo per i diritti umani. E il problema non è
solo l'hijab. L'assassinio di Mahsa Amini è stato la scintilla per una nuova
rivoluzione iraniana, ora sostenuta dagli iraniani in tutto il mondo. Ho una domanda per gli svizzeri: se oggi un vostro
ministro vi dicesse che siete obbligati, per legge, a indossare un determinato capo di
abbigliamento, lo accettereste? Non lo fareste mai. Ecco, la
questione dei vestiti per gli iraniani è solo una goccia nel mare della libertà.
L’era della neutralità è finita, il popolo iraniano va sostenuto con azioni
concrete, perché le persone stanno combattendo per i diritti umani, per il
diritto di scegliere la propria religione, il proprio abbigliamento e il proprio
credo. La gente sta lottando per l'uguaglianza e la giustizia, per la sicurezza e il
benessere sociale. Il popolo vuole distruggere questo sistema economico
corrotto e la dittatura».
I giocatori della Nazionale iraniana che non hanno cantato l’inno ai Mondiali hanno lanciato un messaggio molto forte. Sono dalla parte del popolo?
«I Mondiali sono
il perfetto esempio di come i dittatori utilizzino lo sport, soprattutto il
calcio, come strumento per la loro propaganda. Da Hitler in Germania, a Mussolini
in Italia, a Franco in Spagna e a Khamenei in Iran. La presenza della Nazionale ai
Mondiali è stata un problema per la Repubblica islamica. Prima di tutto, il
regime era preoccupato che i giocatori potessero compiere azioni in grado di
attirare l'attenzione del mondo sulle proteste in Iran. Gesti simili, dalle
parole di Ehsan Hajsafi nella conferenza stampa della prima partita, al mancato
canto dell'inno nazionale, sono effettivamente avvenuti. Inoltre, ogni volta che
la squadra ha giocato, per il popolo iraniano è stata un’occasione per scendere
in piazza e manifestare contro il governo. Ma la Repubblica islamica è riuscita
a usare la Nazionale a suo favore, con alcune mosse propagandistiche. Penso all'incontro manipolato con il presidente, con successiva diffusione di foto e
video dei giocatori sorridenti. Prima di queste immagini, i calciatori avevano già sostenuto più volte
le proteste degli iraniani. Anche al di fuori del Paese, basti pensare a Karim
Ansarifard, che non ha festeggiato quando ha segnato contro il Manchester
United, nonostante fosse uno dei traguardi più importanti della sua carriera. Molti
giocatori della Nazionale hanno anche pubblicato storie di supporto al popolo
iraniano su Instagram. Ma le foto con il presidente prima, e il canto dell’inno
poi, contro il Galles, hanno allontanato la Nazionale dai manifestanti. La
Repubblica islamica ha potuto festeggiare felicemente la vittoria nella
seconda partita ai Mondiali, senza che nemmeno un giocatore facesse alcun gesto
per sostenere le proteste. Il regime è riuscito a disunire le persone a tal
punto da creare una rottura tra la squadra di calcio e la gente. Prima
di questa rivoluzione, le guardie scendevano nelle strade e picchiavano i
tifosi che esultavano per la vittoria Nazionale».
Avete
«perso» la Nazionale, ma credi che Qatar 2022 sia stato un buon palcoscenico
per portare il vostro dramma sotto agli occhi del mondo?
«Può essere,
ma il regime iraniano ha inviato i membri delle forze filo-governative in Qatar
per evitare che scoppiasse uno scandalo sulla morte dei civili. Il governo del
Qatar inoltre ha preso accordi per non passare determinati messaggi durante le
partite. Molti iraniani provenienti da Paesi europei sono andati ai Mondiali
per far conoscere al mondo la voce della rivoluzione del popolo, ma una volta allo
stadio le loro bandiere e magliette a sostegno delle donne iraniane sono state
oscurate. O peggio: la polizia qatariota ha arrestato o cacciato via dallo
stadio chi voleva sostenere il popolo iraniano. Pochi giorni fa il governo
dittatoriale ha arrestato il capitano della squadra di calcio dell’Esteghlal,
Vorya Ghafouri, perché ha manifestato il suo sostegno al popolo. Il regime ha
in seguito rilasciato Vorya per ingannare il comitato d'inchiesta delle Nazioni
Unite. Ma la realtà è ben diversa: migliaia di persone sono ancora in carcere e
sotto tortura, tra loro cito i rapper Toomaj Salehi e Arash Sadeghi».
Chiudiamo
con la questione più difficile: le vittime. Le ONG parlano di oltre 430 morti, tra cui
almeno 60 bambini. Si tratta di un massacro…
«Secondo
statistiche non ufficiali, le persone uccise finora sarebbero molte di più:
almeno un migliaio. Quasi 100 morti erano minorenni e il governo sta cercando
di far credere che alcuni di loro si siano suicidati. Secondo le famiglie delle vittime,
diversi giovani sarebbero stati violentati e drogati. Ora girano notizie sul
rilascio di prigionieri, ma questa è propaganda per ingannare la comunità
internazionale. Oggi si stima che più di 15 mila persone siano state arrestate
e molte di loro si trovino sotto tortura in Iran. Una cosa è certa: molti giovani sono stati
uccisi. Tra questi c’erano sportivi, studenti, ricercatori, insegnanti,
giornalisti, cantanti e politici. Erano persone come noi, ma hanno scelto di
combattere contro i criminali al governo. Per un domani migliore. Per dare un
futuro ai propri figli e al Paese».