Stati Uniti

Caso Washington Post: Bezos difende l'imposizione, ma è emorragia di abbonati

Il miliardario, proprietario del giornale, ha affermato di aver preso la decisione di scavalcare il comitato editoriale (favorevole a un endorsement di Harris) per favorire l'indipendenza del quotidiano – Ma i sospetti sugli interessi commerciali sono forti, mentre emergono notizie di incontri con Trump
©Pablo Martinez Monsivais
Giacomo Butti
29.10.2024 11:30

«A note from our owner». Una nota del nostro proprietario. Questo il sottotitolo dato all'opinione pubblicata, ore fa, sul sito del Washington Post. Firma: Jeff Bezos. Il miliardario e fondatore di Amazon, dal 2013 fiero intestatario dello storico quotidiano americano, ha voluto dire la sua sul caso che – in piena febbre elettorale – sta facendo discutere gli Stati Uniti. Lo scorso venerdì, lo ricordiamo, il CEO del Washington Post William Lewis aveva annunciato, in un'opinione, che il giornale non avrebbe sostenuto alcun candidato alle imminenti presidenziali: una decisione presa, ufficialmente, per creare uno «spazio indipendente», favorendo un «ritorno alle origini» per il giornale che, in passato (parliamo di pre-1976), evitava appunto di schierarsi. Peccato, però, che le belle parole siano state poco dopo lavate via da quanto pubblicato dallo stesso giornale, tramite un articolo nel quale è stato chiarito come la scelta – presa scavalcando il comitato di redazione, che aveva da giorni pronta una lettera di endorsement a Kamala Harris – sia arrivata per volontà di Jeff Bezos. Il proprietario, appunto.

A giorni dal patatrac – di dimensioni non indifferenti, considerata l'ampia libertà storicamente accordata in America a redattori ed editorialisti – Bezos ha deciso di intervenire nella vicenda. E lo ha fatto dicendo che gli endorsement editoriali creano una percezione di parzialità in un momento in cui molti americani non credono ai media, e non fanno nulla per far pendere la bilancia di un'elezione. «Porre fine a questi progetti è una decisione di principio, ed è quella giusta».

Un accordo con Trump?

Mentre Bezos giura e spergiura di aver fatto tutto nell'interesse dell'indipendenza del giornalismo, il sospetto che sotto ci sia qualche fine meno altruistico è, in questi giorni, emerso da più lati. La critica principale rivolta al miliardario, infatti, è quella di aver evitato di prendere posizione (quando l'appoggio del WP alla dem era ormai scontato) per favorire Trump e i propri interessi commerciali. Nel 2016 e poi nuovamente nel 2020, del resto, il Washington Post aveva appoggiato i rivali del tycoon e ciò era già costato ad Amazon un contratto da 10 miliardi di dollari con il Pentagono. Allora, dimostrarono documenti giudiziari resi pubblici, Donald Trump utilizzò la sua influenza per negare il ricco accordo federale all'azienda. Che di fronte all'ipotesi di un ancor più vendicativo Trump alla Casa Bianca, Bezos abbia deciso di limitare i danni? Siamo nel campo delle speculazioni. Ma una cosa è certa. Lo stesso giorno in cui il Washington Post ha reso pubblica la (non) presa di posizione, i dirigenti di Blue Origin (l'agenzia spaziale di Bezos) hanno incontrato Trump in Texas. «Trump ha aspettato per assicurarsi che Bezos facesse ciò che aveva detto di voler fare, e poi ha incontrato i responsabili di Blue Origin», ha rivelato al Daily Beast Robert Kagan, un ex editorialista del quotidiano americano, dimessosi negli ultimi giorni per esprimere il proprio dissenso con la scelta del proprietario. «C'è stato un vero e proprio accordo, nel senso che Bezos ha comunicato direttamente con Trump, e hanno organizzato questo quid pro quo». Contatti, secondo quanto riportato dalla CNN, sono avvenuti anche fra Andy Jassy, CEO di Amazon, e Trump. Rapporti amichevoli, quelli dimostrati in questi giorni, che potrebbero garantire alle due compagnie ricche, ricchissime commesse federali sulle quali Trump potrebbe, nuovamente, avere influenza a breve. Bezos, insomma, potrebbe aver deciso di puntare sul cavallo (o l'elefante) repubblicano, forse anche per i crescenti attriti con l'amministrazione Biden – e quindi Harris – che proprio l'anno scorso ha intentato una causa federale contro Amazon per il sospetto di monopolio.

I sospetti sono stati affrontati dallo stesso Bezos, che nella già citata opinione ha confermato l'avvenuto incontro fra Blue Origin e Trump. «Ho sospirato quando ho scoperto dell'incontro, perché sapevo che avrebbe fornito munizioni a coloro che vorrebbero inquadrare questa decisione come qualcosa di diverso da una decisione di principio. Ma il fatto è che non sapevo, in anticipo, dell'incontro», ha affermato il proprietario del giornale. «Potete vedere la mia ricchezza e i miei interessi commerciali come un baluardo contro l'intimidazione, o potete vederli come una rete di interessi contrastanti», ha affermato Bezos. «Vi sfido a trovare un solo caso in questi 11 anni in cui ho prevalso su qualcuno del Post a favore dei miei interessi. Non è mai successo».

Editorialisti e abbonati scappano

Interessi o meno, il caso sta avendo pesantissime conseguenze per il giornale. Due membri del comitato editoriale del Washington Post si sono dimessi, nelle scorse ore, in risposta alla decisione di non appoggiare un candidato alla presidenza. Dopo il già citato Kagan e Michele Norris, anche Molly Roberts e David Hoffman hanno deciso di abbandonare la propria posizione. «Mi oppongo al silenzio di fronte alla dittatura», ha scritto Hoffman al direttore della pagina editoriale David Shipley in una lettera condivisa con POLITICO. Recentemente insignito del Premio Pulitzer, Hoffman ha affermato di ritenere «insostenibile e inconcepibile» che il Washington Post abbia «perso la propria voce in questo momento pericoloso».

Simile la posizione espressa, sui social, da Roberts: «Supponiamo che un comitato editoriale abbia una prassi decennale di non appoggiare i candidati alla presidenza: questa sarebbe l'elezione giusta per invertire quella posizione e prendere posizione». Donald Trump, ha scritto Roberts, «non è ancora un dittatore. Ma più siamo silenziosi, più vi si avvicina - perché i dittatori non devono nemmeno ordinare alla stampa di pubblicare in modo cooperativo, se vogliono continuare a pubblicare. La stampa lo sa, e si censura da sola».

Ma il danno maggiore il giornale lo ha subito alla voce abbonamenti. Ieri, la National Public Radio (NPR) ha riferito che più di 200.000 persone hanno disdetto l'abbonamento al giornale, citando «due persone del giornale a conoscenza di questioni interne». La notizia, ripresa da un articolo dello stesso Washington Post, non è stata smentita. Già in difficoltà finanziaria – nel mese di giugno il quotidiano aveva annunciato una ristrutturazione di emergenza per rispondere alla partenza a sorpresa della direttrice editoriale Sally Buzbee – il WP avrebbe quindi perso quasi un decimo dei suoi 2,5 milioni di abbonati, la maggior parte dei quali digitali, che lo rende (o rendeva) il terzo giornale statunitense per diffusione, dietro solo al New York times e al Wall Street Journal.