Cecenia: dalla guerra di Eltsin alla tragedia di Beslan
Nella puntata precedente abbiamo riproposto alcuni aspetti della figura di Boris Eltsin, spesso archiviato come presidente debole e incline a qualche eccesso: la sua personalità era ben più ricca della macchietta che ne ha dipinto la propaganda, dopo la sua uscita di scena. Tuttavia, a fianco dei meriti, la sua presidenza è segnata da molti errori. Il più tragico, costato migliaia di morti, avviene nel Caucaso: la prima guerra di Cecenia, scatenata a fine 1994. Una vicenda che ci insegna molto anche sulla Russia di oggi.
Il retroterra storico
L’Impero russo giunge nel Caucaso a inizio Ottocento e lo conquista con una lunga serie di conflitti, dal 1817 al 1864, riassunti nella definizione di Guerra caucasica. L’influenza di Mosca nella regione, però, rimonta a secoli addietro. A nord e a est del Caucaso vivono popolazioni musulmane; a sud due popoli cristiani: georgiani e armeni.
È difficile trovare una regione del mondo più intricata del Caucaso. Questo groviglio di etnie, religioni, alleanze e inimicizie secolari entra a far parte dell’Impero russo e, nel 1922, dell’Unione sovietica, con una variante: le regioni a nord restano parte della Russia sovietica, mentre a sud sorge una federazione formata da Armenia, Azerbaijan e Georgia, denominata Repubblica sovietica transcaucasica. È il quarto soggetto fondatore dell’URSS, che nasce come unione tra Russia, Ucraina, Bielorussia e, appunto, Repubblica transcaucasica. Le altre undici repubbliche sovietiche si costituiranno nel tempo, in conseguenza di riforme costituzionali.
Così, il Caucaso sovietico si divide in due: a nord, Mosca organizza «repubbliche autonome», regioni a statuto speciale all’interno della Russia, abitate da un coacervo di etnie in perenne concorrenza fra loro, imparentate solo dalla comune religione islamica e dall’antipatia per il dominatore russo. Sono la Cecenia-Inguscezia, il Dagestan, la Karačaj-Circassia, la Cabardino-Balcaria e l’Ossezia del nord. A sud del Caucaso, la Repubblica transcaucasica ha vita breve: nel 1936 le entità che la formano diventano le tre repubbliche sovietiche a sé stanti di Armenia, Azerbaijan e Georgia.
La questione etnico-religiosa
Nel Caucaso, da nord a sud, la Russia fatica a imporre la propria egemonia. A nulla valgono la russificazione forzata e le deportazioni di Stalin. Mosca si scontra con popoli che mal sopportano il dominatore russo, quando vi cedono è solo per scansare mali peggiori.
Allo scioglimento dell’Unione sovietica, nel 1991, la divisione del Caucaso ha conseguenze: a sud, Armenia, Azerbaijan e Georgia diventano Stati indipendenti. Conquistano un posto sulla scena internazionale, recuperano le loro lingue e culture.
Le repubbliche del nord, invece, come la Cecenia, restano imbrigliate nella Russia, di cui sono regioni a statuto speciale. I russi che vi abitano sono in minoranza, ma detengono il potere politico ed economico. Divisa in mille clan, fondata su principi tribali e religiosi, la società nord-caucasica si ribella all’egemonia etnico-politica russa, sopportata a causa della repressione del regime. Il conflitto si inasprisce in Dagestan e Cecenia: il 1° novembre 1991, quest’ultima dichiara l’indipendenza.
La questione interna russa e sovietica
A guidare l’indipendenza cecena è un generale dell’Armata rossa sceso in politica, Džochar Dudaev. La dichiarazione d’indipendenza si incrocia con eventi epocali: pressoché tutte le 15 repubbliche sovietiche hanno già dichiarato la loro «sovranità» – un eufemismo per non parlare di «indipendenza» e rischiare conseguenze imprevedibili. L’Ucraina, i Baltici e la Cecenia, invece, usano questo termine senza pudori. L’otto dicembre 1991, Ucraina, Russia e Bielorussia costituiscono la Comunità degli Stati indipendenti e dichiarano cessata l’Unione sovietica.
L’URSS si sgretola, ma questo concerne il patto di federazione tra le quindici repubbliche sovietiche. La dichiarazione d’indipendenza della Cecenia, invece, mette in discussione la coesione interna della Russia: si diffonde il timore che altre regioni possano seguirne l’esempio. Il peso della secessione cecena è gravoso, su una popolazione russa già confusa dalla perdita dei riferimenti che l’avevano educata, per tre generazioni, alla fedeltà al comunismo e all’idea sovietica.
La promessa mancata del federalismo russo-sovietico
La storia dell’Impero russo è un susseguirsi di prevaricazioni culturali, politiche e poliziesche dell’etnia russa su tutte le altre: l’elenco dei decreti promulgati dagli zar per vietare l’uso della lingua ucraina ne è solo un esempio. Quando l’Impero comincia a sfaldarsi, alla fine della Prima guerra mondiale, Lenin lo ricompone costituendo l’Unione sovietica, ma per il nuovo Stato deve inventarsi uno statuto federale, altrimenti i popoli non russi – primi fra tutti ucraini e sud-caucasici – rifiutano di aderire. L’Unione sovietica nasce federale sulla carta, ma resta uno Stato centralizzato: i soviet (consigli legislativi) delle Repubbliche replicano i provvedimenti di Mosca; le autonomie locali sono minime.
Due anni dopo la fine dell’URSS, nel 1993, i russi approvano per referendum una nuova Costituzione: a parole, garantisce anche alla Russia postsovietica un assetto federale che ne rispecchia la varietà etnica. Se si analizza il testo, però, si osserva di nuovo che l’effettiva distribuzione dei poteri ha ben poco di federale. Piuttosto che alla Svizzera o alla Germania, da questa prospettiva la Russia assomiglia all’Italia: uno Stato centralizzato articolato in regioni dai diversi gradi di autonomia amministrativa. Una federazione è un’altra cosa.
La Cecenia e la Costituzione russa
I ceceni non gradiscono la nuova Costituzione e rifiutano di tenere il referendum sul loro territorio. Lo scontro fra Mosca e la capitale cecena, Groznyj («La terribile»), è aspro: non di meno lo è quello tra le istituzioni centrali. Eltsin resta su posizioni dure; il parlamento rifiuta una soluzione militare; Viktor Černomyrdin, capo del governo, tenta il dialogo. Nella confusione, la Cecenia cade preda di violenze e brame locali di potere.
Tutta la Russia vive un momento drammatico. La liberalizzazione dei prezzi, decisa nel 1992, causa un’inflazione vertiginosa; la crisi costituzionale del 1993 irrita i russi: alle elezioni di due mesi dopo esprimono un voto di protesta, dando la maggioranza relativa all’estrema destra di Vladimir Žirinovskij, mentre il Partito comunista di Gennadij Žjuganov raggiunge il terzo posto. Entrambe queste formazioni propugnano, in modi diversi, il ritorno all’Unione sovietica e alla grandeur imperiale di Mosca. Per i partiti riformisti e per Eltsin è un pessimo segnale. Nell’autunno del 1994 il rublo crolla. Le famiglie, in panico, vedono assottigliarsi i loro risparmi nell’arco di una giornata. Il consenso per Eltsin precipita.
L’attacco e la tragedia, verso la Cecenia di oggi
Fra il 30 novembre e i primi giorni di dicembre 1994 Eltsin firma i decreti che scatenano l’invasione militare della Cecenia. «Eltsin rifiutò ogni negoziato e annunciò che era giunta l’ora di mostrare capacità d’azione e forza di volontà» – scrive Michail Gorbačëv nel suo libro Il nuovo muro, e continua, citando un collaboratore di Eltsin: «Il presidente aveva bisogno di una piccola guerra vittoriosa, per far risalire i suoi consensi.» Le cause della guerra di Cecenia non si lasciano ridurre a questa affermazione, che tuttavia è vera.
Non è una guerra breve e nemmeno vittoriosa. È un bagno di sangue che non risolleva la popolarità di Eltsin e diventa la macchia più nera sulla sua presidenza. Una «guerra evitabile», la definisce Gorbačëv.
Nel 1996 il generale Aleksandr Lebed’ sigla con i ceceni un accordo di pace. Lo saluta trionfante, pronunciando una frase rimasta celebre: «La miglior politica è quella militare». Non è così. L’accordo riconosce la sconfitta di fatto dell’esercito russo in Cecenia e spalanca la porta alla seconda guerra cecena, tre anni dopo, guidata da un Vladimir Putin appena nominato capo del governo e bisognoso di guadagnare popolarità per succedere a Eltsin. La seconda guerra consegna la Cecenia ai Kadyrov, fedelissimi di Putin, che la governano ancora oggi con il pugno di ferro. Le rivolte nel Caucaso restano una spina nel fianco della Russia. Un loro culmine è l’assalto alla scuola di Beslan (2004), del quale si ricorda fra pochi giorni il ventesimo anniversario. Lascia centinaia di morti, in gran parte bambini. Intanto, l’estremismo islamico trova nel Caucaso nuovo terreno per il suo dilagare.
Le guerre di Cecenia e la Russia di oggi
Le distruzioni che l’esercito russo ha causato in Cecenia si ripetono oggi in Ucraina: alla loro origine vi è l’incapacità della Russia di ogni tempo di gestire le diversità. La Cecenia è una regione russa, l’Ucraina è uno Stato indipendente, ma il Cremlino non guarda in faccia a nessuno, nemmeno in casa propria. Le contraddizioni del Caucaso offrirebbero l’occasione per costruire un’organizzazione federale dello Stato russo rispettosa dei molti popoli che ne hanno fatto la storia. Oltre che tragedie immani, le guerre cecene sono un’occasione persa, mentre fra gli storici, per la Cecenia allora e per l’Ucraina oggi, si riapre il dibattito sulla natura coloniale dello Stato russo, dagli zar a Putin.
Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per leggere la seconda puntata clicca qui. Per leggere la terza puntata clicca qui. Per leggere la quarta puntata clicca qui. Per leggere la quinta puntata clicca qui. Per leggere la sesta puntata clicca qui. Per leggere la settima puntata clicca qui.