La parola

Che cosa significa «Commonwealth»?

Questa istituzione venne creata per gestire e regolarizzare i rapporti, economici e politici, con le ex colonie e riflette l'importanza del sovrano britannico nel mondo
La regina Elisabetta e suo marito Filippo durante la cerimonia di chiusura dei Commonwealth Games a Brisbane, in Australia, nel 1982. © AP
Marcello Pelizzari
09.09.2022 11:45

Commonwealth. Con la morte di Elisabetta, questa parola è tornata di stretta, strettissima attualità. Una parola che figurava altresì nel titolo che accompagnava la sovrana ovunque: regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e degli altri reami del Commonwealth. La parola, leggiamo, è un’unione di due termini inglesi: common e wealth, letteralmente «bene comune».

La «res publica»

A suo tempo, fu considerato come equivalente del latino res pubblica. La cosa pubblica. Entrò nel linguaggio politico britannico nel sedicesimo secolo. E indicava, appunto, la comunità dei cittadini.

Quindi, tra la caduta di Carlo I – decapitato nel 1649, immaginiamo che a Carlo III le cose andranno comunque meglio – e la restaurazione della dinastia Stuart, nel 1660, il termine venne adottato per designare lo Stato britannico. Con Oliver Cromwell in sella, infatti, l’obiettivo era uno soltanto: dare un taglio all’assolutismo monarchico e proclamare la Repubblica o, meglio, il Commonwealth. In America, invece, anni dopo sarebbero stati chiamati Commonwealths gli Stati dell’Unione.

La svolta nel Novecento

È nel Novecento, tuttavia, che il termine ha assunto il significato attuale. Complice la trasformazione dell’Impero coloniale britannico. Per dire: uscita malconcia, anzi sconfitta, dalla guerra di indipendenza americana, passata attraverso altri tumulti, la Gran Bretagna verso la metà dell’Ottocento iniziò a fare sempre più concessioni. Nel 1840, ad esempio, garantì al Canada un regime parlamentare e un governo autonomi. Una premessa importante che consentì, poi, di trasformare i possedimenti d’oltremare in un vero e proprio Commonwealth. Il responsabile di questa transizione fu Joseph Chamberlain, autorevole (per alcuni autoritario) ministro per le Colonie fra il 1895 e il 1903.

Il mutuo rispetto, diciamo la pariteticità, arrivò ad ogni modo più tardi, al termine della Prima guerra mondiale. In particolare, vennero chiariti i rapporti e molti altri aspetti. Nel 1926, grazie alla cosiddetta formula Balfour, che prendeva il nome dal politico che la propose, i domini britannici iniziarono a essere considerati «comunità autonome nell’ambito dell’Impero britannico, di status uguale, senza alcun rapporto di subordinazione in ogni campo dei rispettivi affari interni e internazionali, sebbene unite dalla comune fedeltà alla corona e liberamente associate come membri del Commonwealth britannico delle Nazioni».

Il Commonwealth nacque ufficialmente nel 1931, quando venne inglobato negli Statuti di Westminster. Alla base non vi era una vera e propria costituzione, ma una volontà da parte dei singoli Stati di avere la corona britannica quale riferimento comune e di coordinarsi a livello politico.

I membri, all’inizio, erano Canada, Nuova Zelanda, Australia, Unione del Sudafrica, Irlanda del Sud (che però nel 1947 rifiutò l’adesione) e Terranova, dal 1949 parte del Canada. A capo del Commonwealth, va da sé, c’era il sovrano inglese.

Chi entra e chi esce

Fra le tappe importanti del Commonwealth citiamo la conferenza di Ottawa nel 1934, quando il Regno Unito e le ex colonie si accordarono sul fronte commerciale con tanto di tariffe preferenziali per i Paesi membri. La comunità, insomma, iniziava davvero a promuovere e garantire il bene comune. Grazie a un intreccio e a una rete di interessi economici e politici, arrivata fino ai giorni nostri seppur indebolita. Una rete promossa pure attraverso lo sport, con i Giochi del Commonwealth. Delle Olimpiadi in miniatura riservate ai Paesi membri. L’ultima edizione si è tenuta a Birmingham, in Inghilterra, lo scorso luglio-agosto.

Altra tappa di rilievo: nel 1947, con l’Indian Independence Act, nel Commonwealth entrarono anche le Repubbliche. Non solo, dunque, il Regno Unito si impegnava a riconoscere l’indipendenza delle colonie, ma permetteva all’associazione di cambiare. Tant’è che nel 1949 il Commonwealth diventò ufficialmente Commonwealth of Nations, una comunità di nazioni al cui interno confluivano culture differenti e diversi ordinamenti politici. Il tutto, come detto, mantenendo ben presente l’obiettivo: coordinamento e mutua assistenza in vari ambiti.

Le decisioni prese dalla comunità, soprattutto, non vennero più considerate vincolanti. Gli Stati membri, poi, potevano e possono sentirsi liberi di uscire in qualsiasi momento. Ci furono casi come il Sudafrica, espulso nel 1961 per la sua politica di segregazione razziale e riammesso nel 1994 in seguito alla fine dell’apartheid, o il Pakistan uscito nel 1972 in seguito alle polemiche sull’indipendenza del Bangladesh salvo rientrare nel 1989. O ancora le Maldive, uscite nel 2016 e rientrate nel 2020, per tacere delle sospensioni temporanee: le Figi sono rimaste fra i penalizzati, volendo usare un gergo hockeistico, fra il 1987 e il 1999 e di nuovo fra il 2006 e il 2014.

I legami economici, venendo ai giorni nostri, in ogni caso hanno subito non pochi contraccolpi, in particolare durante il periodo in cui il Regno Unito faceva parte dell’Unione Europea. I più critici, fra le altre cose, hanno sottolineato come alla struttura attuale manchi equilibrio politico.

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