Che partita stanno giocando Erdogan e la Turchia?
Quale partita sta giocando, esattamente, la Turchia? Come va letto e interpretato l'affronto di Recep Tayyip Erdogan, secondo cui Hamas non è un'organizzazione terroristica? Riavvolgiamo il nastro, brevemente: il leader di Ankara, con toni certamente perentori, ha definito i miliziani palestinesi dei liberatori. Al contempo, ha criticato la risposta muscolare di Israele. Perché? Secondo gli analisti, le parole di Erdogan si inseriscono in un discorso ampio. Molto ampio. Da una parte, la Turchia vuole indebolire l'Iran. Dall'altra, non vede di buonissimo occhio gli Accordi di Abramo e la normalizzazione dei rapporti fra lo Stato Ebraico e i Paesi arabi. Più che altro per una questione di «gelosia»: i regimi arabi dovrebbero affidarsi ad Ankara, non allo Stato Ebraico. In mezzo, la questione del Nagorno Karabakh: un Azerbaigian forte, sempre più forte ai confini con Teheran andrebbe a tutto vantaggio di Ankara, in estrema sintesi.
La Turchia, di suo, ha legami con Hamas da tempo. Come ha ricordato Dario Fabbri nel suo editoriale per Open, il leader dell'organizzazione – Ismail Haniyeh – si muove con passaporto turco. Non solo, Ankara non ha mai nascosto una certa fascinazione per Gerusalemme. Che considera, a tutti gli effetti, musulmana se non ottomana. «L'abbiamo costruita noi» ha detto spesso Erdogan. Secondo cui la città è paragonabile alla Mecca e a Medina, per importanza. E qui, beh, si cela un certo fastidio. Legato agli Accordi di Abramo e alla normalizzazione dei rapporti fra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Sudan e, quantomeno prima degli eventi del 7 ottobre, Arabia Saudita.
I legami fra Erdogan e Hamas
Hamas, ancora, ha rappresentato il pomo della discordia nell'ambito dei rapporti fra Israele e Turchia. Non a caso, gli Stati Uniti avrebbero subito esercitato pressioni affinché Ankara si allontanasse dall'organizzazione militante palestinese. Le possibilità perché ciò accada, appunto, sono però minime. Se le parole sono importanti, quelle pronunciate da Erdogan dopo l'attacco terroristico del 7 ottobre suonavano tutto fuorché come una condanna nei confronti di Hamas. Soprattutto, riflettevano la visione del Sultano e, allargando il campo, degli islamisti turchi e degli elettori dell'AKP rispetto al conflitto israelo-palestinese.
Prima di diventare presidente della Turchia, Erdogan aveva espresso più volte opinioni antisemite e anti-israeliane. Nel 2009, in qualità di primo ministro, a Davos dimostrò tutto il suo livore nei confronti di Israele. Rimproverando pubblicamente Shimon Peres, al Forum economico mondiale, e accusando il governo israeliano di uccidere i bambini palestinesi. Risale invece la 2010 l'incidente alla Mavi Marmara, una nave turca con aiuti destinati a Gaza che, nel tentativo di violare il blocco israeliano, fu attaccata dalle forze speciali israeliane. Un incidente che, inevitabilmente, provocò un netto declino nelle relazioni turco-israeliane.
Proprio a margine di quell'incidente, leggiamo, Erdogan ha cominciato a coltivare un rapporto (quasi) personale con Hamas. Un rapporto che, nel frattempo, si è insinuato nella società turca e che, adesso, sembrerebbe difficile da estirpare. Hamas, sebbene ultimamente stia prediligendo il Qatar, mantiene uffici politici in Turchia. Detto di Haniyeh, anche Khaled Mashal e Saled al-Arouri hanno incontrato pubblicamente Erdogan. Più volte. Come Haniyeh, al-Arouri dispone di un passaporto turco per spostarsi senza ostacoli. Parliamo del cosiddetto capo di Hamas in Cisgiordania, designato come terrorista dagli Stati Uniti e, verosimilmente, una delle menti dell'attacco del 7 ottobre. Un attacco che al-Arouri ha celebrato sui social. Il sostegno turco a Hamas andrebbe oltre, a ogni modo. Armi, già. Lo scorso luglio, come spiegato da Foreign Affairs, le autorità israeliane hanno sequestrato 16 tonnellate di materiale esplosivo diretto a Gaza. La provenienza? La Turchia.
Un mediatore credibile?
Il fatto che Erdogan, da tempo, non condanni ma anzi sostenga Hamas ha reso l'organizzazione e la causa palestinese, dicevamo, molto popolari fra gli elettori dell'AKP, il partito del Sultano. Il Paese, in queste ultime settimane, ha visto moltiplicarsi le manifestazioni pubbliche a sostegno di Gaza. Due giorni dopo l'attacco, Huda-Par – partito islamista radicale nonché partner della coalizione di governo di Erdogan – ha organizzato una manifestazione davanti al consolato israeliano di Istanbul. Fra i cori scanditi, uno in particolare ha colto l'attenzione degli osservatori: «Israele sia dannato».
Giova ricordare che, dopo i moti di Gezi Park e le proteste contro il governo di Erdogan, all'epoca primo ministro, nel 2013, in Turchia le manifestazioni pubbliche sarebbero tecnicamente e legalmente vietate. Quella di Huda-Par, per intenderci, non avrebbe potuto avere luogo senza il nullaosta del governo.
Erdogan, nel frattempo, un po' come il Qatar si è offerto di mediare fra Israele e Hamas. Ufficialmente, ha spiegato, per evitare un'escalation e un allargamento del conflitto. Visto quanto scritto finora e visti i suoi rapporti con l'organizzazione militante palestinese, nessuno finora ha seriamente considerato che la Turchia possa, davvero, essere un attore super partes credibile. Dubbi, in questo senso, erano già stati avanzati su un altro fronte, quello della guerra in Ucraina, con Ankara che, sin qui, ha mantenuto buoni rapporti con Mosca pur sostenendo (anche) Kiev.
Quella visita mancata
La Turchia, all'inizio dello scorso anno, aveva tentato di normalizzare le sue relazioni con Israele. Anche per riavvicinare gli Stati Uniti, con cui i rapporti hanno subito non poche frenate negli anni. L'attacco del 7 ottobre ha fornito ad Ankara una chance unica, se non irripetibile, per rompere con Hamas. Ma a prevalere, sembrerebbe, sono state ancora una volta le posizioni islamiste di Erdogan. Posizioni che, secondo logica, hanno allontanato di nuovo l'America. Gli sforzi diplomatici di Washington, con la visita lampo di Joe Biden in Israele e, parallelamente, l'instancabile girovagare del segretario di Stato Antony Blinken, sin qui non hanno coinvolto la Turchia. Agli occhi degli USA, insomma, Ankara ha scelto con chi stare. E la parte è quella sbagliata.