Chi è Saif al-Adel, il nuovo leader di Al-Qaida
Al-Qaida ha un nuovo capo. Secondo il dipartimento di Stato americano, Saif al-Adel avrebbe ereditato da Ayman al-Zawahiri il ruolo di leader dell’organizzazione terroristica. Al-Zawahiri era stato ucciso da un drone statunitense lo scorso 31 luglio, mentre si trovava a Kabul, in Afghanistan. Ieri Washington ha sostanzialmente confermato, in conferenza stampa, il contenuto di un rapporto pubblicato martedì dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: «La nostra valutazione è in linea con quella dell’ONU: il nuovo leader di al-Qaida è Saif al-Adel, e vive in Iran».
L’egiziano esperto di esplosivi
Ma chi è Saif al-Adel, che in italiano potremmo tradurre come “Spada della giustizia”? Secondo l’FBI, al-Adel sarebbe nato in Egitto l’11 aprile 1960 (altre fonti indicano il 1963 come anno di nascita) con il nome di Mohammed Salah al-Din Zaidan. Giovanissimo, si è arruolato nell’esercito egiziano attorno al 1976, divenendo colonnello delle Forze speciali con una specializzazione nell’uso di esplosivi.
Nel 1988, al-Adel avrebbe abbandonato l’Egitto per recarsi in Afghanistan e unirsi al gruppo Maktab al-Khidamat (MAK) fondato quattro anni prima da Abdullah Azzam, Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri e altri jihadisti. Il gruppo aveva come obiettivo la raccolta fondi e il reclutamento di mujahidin stranieri per la guerra contro l’URSS in Afghanistan: entro la fine degli anni ’80, con la morte di Azzam, il MAK confluì in al-Qaida.
In questi anni, al-Adel avrebbe addestrato le nuove reclute dell’organizzazione all’uso di esplosivi e dopo la fine della guerra sarebbe rimasto in Afghanistan per fare lo stesso con i talebani. Secondo fonti d’intelligence, al-Adel avrebbe giocato un ruolo centrale nell’organizzare gli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania del 7 agosto 1998, attentati che causarono 224 morti e circa 4.000 feriti.
Vent’anni in Iran
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti crearono un elenco dei terroristi più ricercati (FBI Most Wanted Terrorists). Ritenuto, come detto, la mente dietro gli attentati alle ambasciate statunitensi in Africa, Saif al-Adel fu incluso tra i 22 nomi presenti nella lista. A fine anno, dunque, al-Adel avrebbe lasciato l’Afghanistan per cercare rifugio in Iran. Qui sarebbe tuttavia stato posto agli arresti domiciliari e rilasciato solo nel marzo del 2010 in cambio del rilascio, da parte di al-Qaida, di un diplomatico iraniano rapito due anni prima. Altre fonti parlano invece di una sua liberazione in occasione di uno scambio di prigionieri avvenuto a settembre 2015. Agli arresti domiciliari o meno, al-Adel avrebbe agito con relativa libertà con il benestare dell’Iran: nell’ultimo decennio avrebbe operato non solo nel Paese sciita, ma anche nel vicino Pakistan e, pare, in Siria. Nel mese di marzo 2016, un account Twitter affiliato ad al-Qaeda ha fatto intendere che la “Spada della giustizia” sarebbe stata inviata in Siria per organizzare una risposta all’intervento russo nella guerra civile.
La nomina non ufficiale
Oggi, al-Adel si troverebbe ancora in Iran. E questo spiegherebbe perché, come evidenziato dal rapporto delle Nazioni Unite, il 62.enne non sia ancora stato ufficialmente dichiarato “emiro” da Al-Qaida. L’egiziano si troverebbe in una posizione scomoda: Al-Qaida è infatti un’organizzazione islamista di credo sunnita, mentre l’Iran — ormai base operativa di al-Adel — è a maggioranza sciita. Che l’eccessiva vicinanza all’altra corrente islamica possa indebolire Al-Qaida? «La posizione di al-Adel solleva questioni che hanno a che fare con le ambizioni di Al-Qaeda di affermare la leadership di un movimento globale di fronte alle sfide dello Stato Islamico», si legge nel rapporto dell'ONU.
Ma non finisce qui: Al-Qaida non può nominare ufficialmente un nuovo emiro, perché Al-Zawahiri — anche qui, ufficialmente — non è mai morto. Le autorità talebane (così come la stessa Al-Qaida) non hanno mai voluto riconoscere l’uccisione, da parte degli Stati Uniti, del leader jihadista in territorio afghano. Perché? Semplice: l’ammissione di una sua presenza a Kabul sottintenderebbe una palese violazione degli accordi di Doha, accordi che prevedevano — in cambio del ritiro delle truppe statunitensi — l’impegno da parte dei talebani a impedire, in Afghanistan, il proliferare di attività legate ad Al-Qaida.