Il profilo

Chi era Matteo Messina Denaro

La firma sulle stragi del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i trent'anni di latitanza vissuti come un fantasma e i tanti fiancheggiatori
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Red. Online
25.09.2023 08:35

Ci hanno provato in tanti, nel corso degli anni. A mettere fine alla lunga latitanza di Matteo Messina Denaro, da tempo malato di tumore e morto in queste ore all'età di 61 anni nel reparto detenuti dell'ospedale dell'Aquila. Prima o poi lo prenderemo, continuavano a dirsi ministri, magistrati, forze dell'ordine. Alla fine, lo sforzo è stato premiato lo scorso 16 gennaio. Dopo trent'anni di irreperibilità, il boss di Cosa Nostra è finito in manette. Era sparito dopo la cattura di Totò Riina. Decisivi, ai fini della cattura, i colpi inferti al suo impero miliardario. Smontato pezzo per pezzo e sequestrato. Così, con un lavoro certosino, è stata smantellata la catena che lo ha protetto per una vita. E che, seppur indebolita, continuava a proteggerlo.

L'uomo dal potere infinito, in sostanza, ha vissuto metà della sua vita come un fantasma. Sebbene questa invisibilità non gli abbia impedito di diventare padre due volte. È stato attento, Matteo Messina Denaro. A non farsi beccare. Un esercizio, la latitanza, possibile solo e soltanto grazie ai tanti fiancheggiatori. Dai suoi nascondigli, dopo la cattura, è emersa l'immagine di un playboy implacabile, come ha scritto l'ANSA, un'immagine legata a doppio filo anche all'immaginario cinematografico: gli occhiali da sole, le camicie griffate, le Porsche e i Rolex. Ma anche passioni più comuni come i fumetti, con Diabolik in testa, da cui ha preso in prestito uno dei suoi soprannomi. I suoi biografi, invece, hanno sempre preferito chiamarlo U Siccu. Il magro. 

Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso con ferocia. Dimostrando, altresì, pragmatismo politico. Considerato il vero erede di Bernardo Provenzano, deve molto evidentemente a suo padre Francesco, don Ciccio, boss morto latitante nel 1998. Quando Don Ciccio morì, di Matteo Messina Denaro si erano già perse le tracce da cinque anni. E Diabolik, per anni e anni, ha continuato a sfuggire alla giustizia. Che lo cercava per inchiodarlo alle stragi degli anni Novanta. Per certi versi, viste le acrobazie con cui – puntualmente – sfuggiva all'arresto, il boss ha tenuto fede a uno dei suoi soprannomi. Diabolik, appunto.

Su di lui, a un certo punto, è perfino stata posta una taglia da un milione e mezzo di euro. In realtà, però, gli investigatori come detto hanno preferito agire con una strategia a tenaglia. Capace, passo dopo passo, di smontare la rete fiancheggiatori. Neppure i suoi familiari più stretti sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, poi ancora un nipote. E tanta gente fidata, con tanto di prestanome apparentemente insospettabili.

A inseguire Messina Denaro era una vera e propria montagna di mandati di cattura e condanne all'ergastolo per, citiamo, associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. La sua mano e la sua firma hanno macchiato i fatti criminali più gravi degli ultimi trent'anni in Italia. A cominciare dalle stragi del 1992, in cui perirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo stesso Diabolik, più volte, si è vantato di aver «ucciso tante persone da riempire un cimitero».

Detto questo, esperti e analisti hanno più volte dubitato delle reali capacità di Messina Denaro. In particolare, nel ricostruire la struttura unitaria di Cosa Nostra dopo gli arresti di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Diabolik, è vero, ha saputo portare la mafia nel nuovo millennio. Ma non ha saputo evitare la stessa fine degli altri padrini. 

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