«Chi giustifica l’invasione di Putin usa false tesi su NATO e Donbass»
L'Ucraina resiste. Dopo quasi un mese dall'inizio dei bombardamenti, la guerra che infuria alle porte dell'Occidente non si placa. La conta dei morti prosegue senza sconti e nonostante l'atto di forza di Putin sia ormai sotto gli occhi di tutti, il mondo continua a dividersi. C'è chi giustifica l'ingiustificabile, in un mare di disinformazione che dilaga sui social network e nei salotti in tv. Persino politici e professori universitari alzano la voce con dichiarazioni che spesso fanno a pugni con la realtà. Secondo qualcuno, la guerra sarebbe scoppiata per colpa dell’Occidente, mentre per altri l'Ucraina avrebbe tirato troppo la corda. Con il ricercatore indipendente Luca Lovisolo, studioso di Europa dell’Est e autore del libro Il progetto della Russia su di noi (Archomai, 2020), proviamo a smontare queste «storie falsificate».
La promessa
di non allargamento della NATO: un falso
Una delle
tesi più utilizzate da chi giustifica l’invasione della Russia ai danni
dell’Ucraina è quella sulla presunta promessa della NATO (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord) di non espandersi ad
Est. Tradotto: la guerra sarebbe scoppiata principalmente a causa
dell’Occidente. È un’accusa fondata? Luca Lovisolo spiega: «La storiografia
russa, che poi è propaganda, si è inventata questa promessa della NATO di non
allargamento a Est, interpretando a proprio vantaggio alcune espressioni che
furono effettivamente dette durante i colloqui per la riunificazione della
Germania e potevano essere interpretate in tal senso. È impossibile, però, che vi fossero tali riferimenti». Questo, sottolinea l’esperto, per tre ragioni: una
di logica storica, una politica e una giuridica. «Da un punto di vista di
logica storica, questa promessa non avrebbe potuto esistere, in quanto i due
blocchi, durante i colloqui per la riunificazione tedesca, erano ancora
esistenti. All’epoca non si sarebbe potuto immaginare che, solo un anno e mezzo
dopo, il Patto di Varsavia e l’Unione Sovietica sarebbero caduti. Dunque, in
quel momento, non avrebbe avuto senso una promessa di non allargamento della NATO:
gli Stati dell’Europa dell’Est erano ancora incardinati nell’alleanza dell’URSS
che, seppur in difficoltà, era ancora pienamente esistente, e nessuno avrebbe
pensato ad un crollo di lì a poco. Dal punto di vista politico, quella promessa
non poteva essere ricevuta da Gorbaciov, perché egli stava lavorando per tenere
uniti l’URSS e il suo sistema di alleanze. Se l’allora presidente sovietico avesse
accettato il non allargamento della NATO, significa che già a quei tempi dava per compiuto lo sfaldamento dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Est, ma questo
era politicamente contrario alla sua visione. Ricordiamo che Gorbaciov il 25
dicembre 1991 si dimise da presidente dell’URSS perché il suo progetto di
tenere unito il Paese era fallito in conseguenza alla nascita della Comunità
degli Stati indipendenti (CSI). Questa non fu voluta da lui, ma fu creata
contro di lui da Russia, Ucraina e Bielorussia. È impensabile che un politico che
cerca di tenere unita una realtà si sia impegnato un anno e mezzo prima in
qualcosa che ne presuppone la caduta». Lovisolo poi spiega le incongruenze che
si riscontrano quando si entra nel campo del diritto: «Da un punto di vista
giuridico, una promessa tra USA (o Germania) e URSS sul non allargamento della NATO
non avrebbe avuto nessun effetto perché, in generale, due Stati non possono
accordarsi sul destino di altri, che fanno scelte sovrane. USA e URSS non avrebbero
potuto accordarsi sulle alleanze scelte da un altro Paese. Se poi entriamo
nello specifico, una presunta promessa avrebbe presupposto la modifica
dell’articolo 10 del trattato dell’Alleanza atlantica, che stabilisce come
questa sia aperta all’adesione di qualunque Stato che ne condivida gli
obiettivi. Quindi si sarebbe dovuto modificare questo articolo per trasformare
la possibilità di adesione di nuovi Stati alla NATO: da alleanza aperta, qual è
oggi, sarebbe dovuta diventare un’alleanza chiusa, che non prevede l’adesione
di nuove parti. Di questa modifica non solo non si è mai parlato, ma, qualora
fosse stata proposta, avrebbe richiesto l’unanimità di tutti i Paesi membri per
essere applicata. Un accordo solo tra USA e URSS non avrebbe prodotto alcun
effetto». Il ricercatore poi sottolinea: «Tutta la falsificazione della storia
che riconduce alle tante argomentazioni sulle minacce e sulle armi della NATO ai
confini con la Russia parte da questa radice: la NATO aveva promesso di non
allargarsi a Est. Ma questa radice è falsa e tutto ciò che ne deriva, di
conseguenza, è insostenibile. Lo stesso Gorbaciov in interviste uscite anche
sulla stampa russa disse che durante i colloqui della riunificazione tedesca
non si parlò mai di allargamento della NATO. Nonostante questo, oggi la tesi
della promessa è comunque alla base della propaganda che giustifica la guerra».
Se l'Ucraina
non può avvicinarsi all’Occidente
Ma allora
perché il problema riguarda solo l’Ucraina e non, ad esempio, i Paesi baltici?
Fin lì la NATO è arrivata senza troppi problemi e parliamo di Stati che
facevano parte dell’URSS. Secondo Lovisolo il motivo è semplice: «L’adesione
dell’Ucraina alla NATO non è la vera causa della guerra, è solo un pretesto per
l’inizio del conflitto e di tutta la retorica che gli sta intorno. La
dimostrazione di ciò, è che nei giorni scorsi il presidente ucraino Zelensky ha
dichiarato che il suo Paese sarebbe disposto a rinunciare all’adesione alla NATO.
Di fronte a questa affermazione però la Russia non ha fermato i combattimenti:
l’adesione dell’Ucraina alla NATO non è il casus belli, altrimenti Putin si
sarebbe fermato una volta raggiunto lo scopo. Serviva un argomento per lanciare
la guerra che risponde al progetto di Putin: ricostruire l’egemonia della Russia
sull’Europa dell’Est e giungere in questo modo ad un controllo politico su
tutto il Continente, fino all’Atlantico (ne abbiamo parlato qui). Secondo l’esperto, è la storia che si ripete: «Quando nel 2014 iniziò la guerra in Ucraina, la
Russia avanzò le stesse argomentazioni, ma in merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione
europea. Ai tempi non si parlava neanche di adesione, ma di un trattato di
cooperazione con l’UE. Anche in questo caso venne presa a pretesto l’adesione
dell’Ucraina ad un’entità occidentale. Molti credono che Zelensky stia sacrificando
le vite del suo popolo e che debba rinunciare al Donbass e alla Crimea per
porre fine alla guerra. Non è così, il conflitto non finirebbe: quelle due zone
sono solo la prima tappa di un progetto che, nella visione di Putin, deve
andare molto più in là».
Rinunciare alla NATO?
Con Luca
Lovisolo proviamo poi ad analizzare i vari aspetti nel caso in cui l’Ucraina
rimanesse fuori dalla NATO, chiaramente in cambio di un cessate il fuoco, che
al momento sembra non essere nelle intenzioni di Putin. Il ricercatore afferma:
«Se la Russia fosse disponibile a fermare i combattimenti in cambio dell‘adesione
alla NATO, per l’Ucraina potrebbe non essere particolarmente dannoso. Ricordiamo
che la sua entrata nell’Alleanza atlantica era prevista in uno spazio di tempo
di una decina d’anni, quindi rinunciarvi oggi sposta le cose di poco. L’Ucraina
potrebbe compensare questa rinuncia entrando nell’UE con una sorta di statuto
neutrale, come l’Austria e la Svezia (che sono Paesi UE ma non membri della NATO,
ndr). Se non entrasse né nella NATO né nell’Unione europea, l’Ucraina rischierebbe
di ricadere nella sfera russa per posizione geografica e per situazione
oggettiva. Se entrasse almeno nell’UE, si troverebbe in un sistema economico e
di valori occidentale, che le impedirebbe di finire ancora sotto l’egemonia
russa. Questa potrebbe essere una situazione transitoria, non una rinuncia
definitiva, perché non sappiamo come si evolverà la situazione nei prossimi
anni». Lovisolo aggiunge: «Detto ciò, se il conflitto dovesse durare a lungo,
sarà sempre più difficile convincere i dirigenti e l’opinione pubblica ucraini
a restare fuori dalla NATO, perché gli unici Paesi che in questo momento si
stanno salvando dalla guerra sono proprio i membri dell’Alleanza atlantica: la Russia
non li attacca perché sa che verrebbero difesi da tutta l’alleanza. Ricordiamo
poi che l’Ucraina ha già avuto una cattiva esperienza in questo senso, quando,
nel 1994, ha raggiunto una sorta di stato di neutralità rinunciando alle armi
nucleari. Questo in cambio di una garanzia da parte di alcune potenze, tra cui
la Russia. L’integrità territoriale ucraina però non è stata rispettata come
promesso. Oggi è difficile pensare che gli ucraini accettino un'altra garanzia
sulla carta: la Russia aveva chiesto di non aderire alla NATO in cambio di
protezione, ma intanto oggi piovono le bombe. La scelta di non adesione si
scontra con ostacoli che la stessa Russia ha collocato sul percorso».
Le repubbliche non riconosciute e i referendum
Oltre alla
questione NATO, c’è un altro argomento decisamente spinoso e avvolto in un lungo
manto di disinformazione: il Donbass. Le cosiddette Repubbliche Popolari di
Donetsk e di Lugansk, nonostante non siano riconosciute dall’ONU, dall’UE e dall’Ucraina,
vengono spesso chiamate in causa dai sostenitori di Putin. Lovisolo affronta la
questione: «C’è stato un lavoro ben strutturato da parte della propaganda che,
sia sui social media sia sulla stampa, è riuscita a fare passare il concetto di
come queste entità siano Stati a tutti gli effetti. Si è diffusa la convinzione
che siano repubbliche autonome a cui l’Ucraina vuole togliere il diritto di
autodeterminazione. I referendum per l’indipendenza sono stati organizzati dalla
potenza occupante, in un territorio occupato. Non c’è stata nessuna verifica
internazionale e i risultati, che sono stati gestiti esclusivamente dalla
potenza occupante, non corrispondono con le varie rilevazioni statistiche e
sociologiche svolte prima dell’occupazione. Secondo un sondaggio
dell’International Republican Institute, svolto nel 2014, in questi territori la percentuale di
popolazione che riteneva che i russofoni fossero minacciati e approvava un
intervento russo a loro protezione oscillava tra il 17 e il 24%, proprio nelle
regioni orientali russofone. Pur considerando tutte le variabili e le
possibilità di errore dei sondaggi». I due referendum non sono stati riconosciti dalla comunità internazionale. In tal
senso l’esperto puntualizza: «Quando vengono a dire che il 90% della popolazione ha
votato a favore dell’indipendenza di quelle repubbliche, qualcosa decisamente non
torna. In più c’è stato tutto un lavoro di carattere politico destinato a
convincere autorità locali, come i sindaci, ad instituire addirittura delle
rappresentanze ufficiali di questi Stati. Queste ovviamente non venivano chiamate
consolato o ambasciata, ma avevano uffici, carte intestate, intervenivano nel
dibattito politico dei singoli Stati e addirittura organizzavano mostre
all’estero: si è cercato in tutti i modi di dare una sostanza a due entità che
non esistono. Però il meccanismo ha funzionato e questo è il tipico risultato
di guerra ibrida che, attraverso l’informazione e la pressione sulla politica,
riesce a far riconoscere ad alcune autorità e all’opinione pubblica dei fatti
non esistenti».
Putin
bombarda anche i russofoni
Ma come si
è arrivati ai fantomatici referendum che hanno portato alle Repubbliche Popolari
di Donetsk e di Lugansk? Secondo Lovisolo, la questione etnico-linguistica
citata da Putin per giustificare la sua missione di «denazificazione»
dell’Ucraina sarebbe solo altro fumo negli occhi: «L’indipendenza dei due
territori non è nata per ragioni di carattere etnico-linguistico. Quelle due
regioni del Donbass hanno una struttura linguistica che è del tutto simile a
quella di Kharkiv e di Odessa. Sono città nelle quali prevale l’uso della
lingua russa, mentre nelle campagne intorno prevale la lingua ucraina. Se
pensiamo alla Svizzera, le diverse lingue coincidono in gran parte con i confini
cantonali, in Ucraina invece le diverse comunità linguistiche convivono tra
città e campagna, e a volte anche all’interno di rami della stessa famiglia.
Quello ucraino è un multilinguismo diverso da come lo immaginiamo noi.
L’origine di questo indipendentismo del Donbass in realtà è di carattere
economico. Si tratta di regioni trainanti, come può esserlo ad esempio la Lombardia
per l’Italia. Già dalla fine degli anni ‘90 questi territori hanno cominciato a
sviluppare una forma di aspirazione all’autonomia - nemmeno all’indipendenza - simile
a quello economico che caratterizza il Veneto di oggi. Il ragionamento alla
base è il seguente: noi siamo le regioni trainanti e vogliamo avere una
considerazione diversa da parte dello Stato». Il nostro interlocutore prosegue:
«Come per il 90 % dei movimenti autonomisti, poi vengono sfruttati elementi
linguistici e culturali per ottenere risultati di carattere economico o
politico. Si cerca di far valere la propria potenza economica e dunque si trovano
argomenti come la lingua e la cultura per veder riconosciuta la propria
diversità». Lovisolo entra nello specifico: «Nel Donbass si è arrivati
all’esagerazione di tutto questo quando il presidente Yanukovich (in carica
dal 2010 al 2014, ndr), che proveniva da quelle regioni e ne portava alla
presidenza dello Stato centrale le istanze, è caduto. Quei territori hanno perso
colui che rappresentava il loro desiderio di autonomia fondato su
rivendicazioni di carattere economico. Questo ha causato disordini che
sarebbero rimasti limitati se la Russia non fosse intervenuta. Il Cremlino ha
capito che poteva cavalcare quel sentimento. Ha caricato il movimento
autonomista di un messaggio indipendentista e ha armato le frange di estrema
destra e di estrema sinistra: le protagoniste della lotta che ha portato alla formazione
delle due repubbliche. Nel mentre, il partito di centro che esprimeva il
presidente Yanukovich si è sfaldato e ha lasciato campo libero alle bande di
indipendentisti spinte dai russi. Dalle iniziali questioni economiche ha preso
piede la narrazione dell’indipendentismo nel nome dell’autodeterminazione dei
popoli». Anche questa faccenda sarebbe un pretesto della guerra di Putin: il
presidente russo ha infatti affermato di voler proteggere i russofoni che
vivono in Ucraina. Lovisolo fa notare la contraddizione: «A Kharkiv e Odessa un
movimento simile a quello del Donbass non si è sviluppato, nonostante abbia
cercato di prendere piede. Quelle città hanno una struttura etnico-linguistica
del tutto simile a quella di Donetsk e Lugansk, ma non lo stesso tipo di
rivendicazioni economiche. Se osserviamo cosa sta accadendo in questi giorni nel
teatro di guerra, notiamo un ulteriore elemento che rafforza il discorso etnico-linguistico:
Putin sta bombardando e distruggendo Mariupol e Kharkiv, due città a maggioranza
russofona. Ora il presidente russo dovrebbe spiegarci dov’è finita la tutela
della popolazione russofona che va sbandierando, se poi si accanisce contro
città dove prevale proprio la popolazione russofona». Il ricercatore conclude:
«I cittadini russofoni sono ucraini, non sono filorussi. In Ucraina esistono diverse
minoranze linguistiche, circa una quindicina. Sono riconosciute dalla Costituzione
e hanno una loro identità, che prescinde dalla lingua parlata. Un ticinese
parla italiano, ma è svizzero, così come un cittadino di Kharkiv è ucraino,
anche se parla russo. Questo non vuol dire che voglia riunirsi alla Russia,
sono invenzioni di Putin. E purtroppo anche di alcun media».