USA 2024

Chicago incorona Kamala Harris: la sfida con Trump è alla pari

I sondaggi negli ultimi giorni pongono la vicepresidente davanti all'avversario – Perché e come gli elettori stanno spostando il proprio orientamento – Secondo l'ex consigliere per la comunicazione di Bill Clinton, Doug Sosnik, il divario di genere potrebbe essere determinante
©WILL OLIVER
Dario Campione
20.08.2024 00:00

Non è da escludere che, in futuro, la data chiave con cui gli storici ricorderanno la campagna elettorale 2024 per la presidenza degli Stati Uniti sarà il 21 luglio: il giorno nel quale Kamala Harris è subentrata a Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca. Lo scetticismo, i dubbi e la sfiducia che avevano caratterizzato, quasi ovunque, i primi commenti dopo l’ingresso nella contesa della vicepresidente, si sono dissolti molto in fretta. Sono quasi del tutto evaporati. Soprattutto di fronte ai numeri dei sondaggi.

In meno di quattro settimane, infatti, l’ex procuratrice generale della California non soltanto sembra aver annullato la distanza che la separava da Donald Trump ma, secondo molti istituti demoscopici, sarebbe addirittura in vantaggio sul tycoon: sia a livello nazionale sia - cosa molto più importante e significativa - in alcuni dei cosiddetti Stati in bilico.

Manteniamo saldo il condizionale. Evitare certezze e affermazioni irrefutabili, in questo così come in altri casi, è ottima abitudine. I voti virtuali, spesso, non coincidono con quelli reali. E non sono pochi, negli ultimi anni, i sondaggi che si sono rivelati del tutto fuori fuoco. Oltretutto, due mesi e più di campagna elettorale possono ancora cambiare molte cose.

E tuttavia, chi legge ogni giorno la stampa americana, di qualsiasi orientamento essa sia, non può fare a meno di vedere come la candidata del Partito Democratico stia davvero giocando una partita per vincere e non, semplicemente, per partecipare.

Le ultime rilevazioni

Due giorni fa, il sondaggio nazionale commissionato da ABC News-Washington Post-Ipsos alla vigilia della convention di Chicago che si è aperta ieri sera, ha mostrato Harris in vantaggio di 6 punti tra i probabili elettori, 51% a 45%, mentre il sondaggio CBS News-YouGov ha dato la vicepresidente avanti di 3 punti. Nelle quattro rilevazioni di New York Times e Siena College effettuate in Arizona, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin - quattro dei sette Stati nei quali si decide la presidenza - Harris ha un vantaggio di 4 punti.

Uno scenario abbastanza anomalo. Spiegano infatti gli analisti americani che, in una tipica campagna elettorale, il partito che non detiene la Casa Bianca cresce nei sondaggi dopo la sua convention, tradizionalmente celebrata per prima. Il partito del presidente in carica annulla poi questa crescita con un’ondata corrispondente di consenso seguita alla propria convention.

Il fatto è che Kamala Harris sembra avere il vento in poppa da almeno un mese, da quando cioè i repubblicani hanno dato via libera a Trump e al suo vice designato, J.D. Vance. L’urto ulteriore dell’appuntamento dem di Chicago potrebbe dare alla vicepresidente un vantaggio significativo. Questo perché, ha scritto Steven Shepard su Politico, «storicamente, le preferenze degli elettori sono in genere quasi solidificate alla conclusione delle convention, e qualsiasi cambiamento successivo nei sondaggi è in genere modesto. Ma questa è stata, ed è, tutt’altro che la tipica campagna elettorale».

La svolta del 27 giugno

Ma che cosa ha determinato l’inattesa inversione di tendenza nelle preferenze degli americani? È del tutto evidente come la svolta sia arrivata il 27 giugno, la sera della disastrosa performance di Joe Biden nel faccia a faccia di Atlanta con Donald Trump, mandato in onda dalla CNN. In quel momento, i democratici hanno capito che il presidente non avrebbe potuto sostenere il confronto con l’avversario repubblicano. Il passaggio da Biden a Kamala Harris, sin lì temuto o giudicato negativamente, era diventato d’improvviso una necessità. Non solo: anche l’atteggiamento degli elettori è mutato. Fino al dibattito di Atlanta, soltanto il 28% degli americani si diceva soddisfatto della possibile scelta tra Biden e Trump. Adesso, la percentuale è salita al 44%. Ovviamente, il cambiamento più grande è avvenuto tra i democratici. A metà luglio soltanto il 20% di loro approvava la candidatura del presidente, con Harris è il 60% dei democratici a esprimere invece la sua soddisfazione.

Nel testa a testa con Trump, poi, Kamala Harris ha migliorato la sua posizione (rispetto a Biden) tra numerosi gruppi chiave della coalizione democratica: gli elettori di età inferiore ai 40 anni, gli indipendenti e, soprattutto, gli afroamericani, che in questo momento scelgono la vicepresidente con percentuali altissime, attorno all’85%. Inoltre, durante tutto l’anno della campagna elettorale, e soprattutto dopo il dibattito di Atlanta, il 78 enne Donald Trump è parso agli americani fisicamente e mentalmente molto più brillante dell’81enne Joe Biden. Chiaro come la 59 enne Harris abbia ribaltato questa percezione. Se a luglio Trump precedeva Biden di 30 punti sulla lucidità mentale e di 31 punti sulla salute fisica, adesso il tycoon è dietro la vicepresidente di 9 punti per acutezza mentale e di 30 punti per salute fisica.

Fattori decisivi

Secondo Doug Sosnik, già direttore degli affari politici della Casa Bianca e consigliere per la comunicazione nel secondo mandato presidenziale di Bill Clinton, altri due fattori potrebbero permettere a Kamala Harris di vincere le elezioni di novembre: «il divario di genere, che quest’anno potrebbe essere più grande che mai; e l’opportunità di trasformare una campagna politica in un vero e proprio movimento».

Spiega Sosnik: «il divario di genere, vale a dire il modo differente in cui uomini e donne votano, è diventato prominente nella politica americana nella campagna presidenziale del 1980, la prima vinta da Ronald Reagan. Da allora, in ogni elezione presidenziale c’è stato un divario tra il voto delle donne e quello degli uomini. Una confluenza di eventi, e in particolare la questione del diritto all’aborto, suggerisce come quest’anno il divario possa essere storico». Le donne, votando in massa per la vicepresidente, potrebbero quindi determinare il risultato finale. «Kamala Harris, in questo momento, è ancora la leader di una campagna. Ma se la convention di Chicago andasse bene potrebbe superare la figura del semplice candidato e diventare il capo di un movimento, qualcosa di praticamente inarrestabile».

Israele unico scoglio dell'unità ritrovata

Immaginare la politica americana unicamente come uno scontro di personalità o, peggio, come una guerra ideologica destra-sinistra sarebbe un errore. Non c’è dubbio che gli Stati Uniti, in questo momento, siano un Paese diviso, fortemente «polarizzato». Ma le differenze tra i due partiti dominanti della scena politica sono robustamente programmatiche. Si fondano, cioè, su visioni del mondo diverse ma anche - e soprattutto - su ricette e soluzioni concretamente differenti (e, molto spesso, opposte).

Lo provano le 92 pagine della «Piattaforma programmatica finale», pubblicata dal Comitato Nazionale Democratico (DNC) domenica sul sito ufficiale del partito e votata, ieri notte, dai delegati alla convention di Chicago.

«La nostra nazione è a un punto di svolta - si legge nel preambolo della Piattaforma - Che tipo di America saremo? Una terra di più o meno libertà? Di più o meno diritti? Un’economia truccata per i ricchi e i potenti, o [un’economia nella quale] tutti hanno una buona possibilità di andare avanti? Abbasseremo la temperatura nella nostra politica e ci uniremo, o ci tratteremo l’un l’altro come nemici? La posta in gioco in queste elezioni è enormemente alta».

Nove capitoli e 57 paragrafi
Suddivisa in nove capitoli e 57 paragrafi, la Piattaforma dem tocca più o meno tutti i temi dell’attualità politica interna e internazionale: dalla crescita dell’economia alla riduzione dei costi per le famiglie; dalla crisi climatica all’indipendenza energetica; dal ripristino della storica sentenza sul diritto all’aborto «Roe v. Wade» come legge federale alla mai risolta questione della libera vendita delle armi; dalla sicurezza dei confini al «rafforzamento della leadership americana in tutto il mondo».

Se i dibattiti televisivi tra candidati attraggono milioni di spettatori e accendono le discussioni sui media, in particolare quando si tratta di esprimere il giudizio sulla capacità comunicativa (e non solo, ne sa qualcosa Joe Biden) del leader, i programmi nero su bianco sono il vero elemento di discrimine. Cosa di cui gli stessi attori della politica americana sono perfettamente consapevoli.

«La nostra piattaforma è in netto contrasto con quella repubblicana - si legge infatti nel preambolo dei Democratici - Donald Trump vuole realizzare la sua agenda estrema per istituire un divieto nazionale di aborto, dare elemosine ai suoi donatori miliardari sulle spalle della classe media americana, fare tagli a Medicare e Social Security (sanità e previdenza sociale, ndr), assicurarsi di poter essere un dittatore sin dal primo giorno di mandato, privare gli americani delle libertà e smantellare la nostra democrazia. Il contrasto non potrebbe essere più netto».

Come hanno sottolineato molti commentatori, la piattaforma sembra essere stata scritta in modo tale da evitare polemiche e divisioni, ovvero tutto ciò che potrebbe far deragliare il nuovo sentimento di unità sorto dopo l’abbandono di Biden e l’irruzione sulla scena del voto di Kamala Harris. Riuscirà il Partito Democratico a raggiungere questo obiettivo? L’unico, vero, punto di attrito durante la lunga fase di stesura del documento, ha evidenziato il Washington Post, è stata la richiesta di alcuni esponenti dem di un embargo alla vendita di armi a Israele. Richiesta, alla fine, non accolta. Nel documento, infatti, si ribadisce il sostegno a Israele nella lotta contro Hamas, così come il sostegno a una soluzione a due Stati che dia ai palestinesi «il diritto a vivere in libertà e sicurezza in un proprio Stato».

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