Diritti

«Da adulto ho pianto due volte: alla morte di mia madre e alla caduta di Kabul»

A più di un anno dal ritorno dei talebani al potere, donne e uomini afghani lottano ancora per ritrovare la propria libertà – Ne abbiamo parlato con Nasir Ahmad Andisha, ambasciatore e rappresentante permanente dell'Afghanistan alla sede ONU di Ginevra
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Giacomo Butti
08.12.2022 18:15

Era una domenica, quel 15 agosto 2021, quando i cellulari cominciarono a trillare. Una notifica dietro l’altra, inviate dai siti di tutti i giornali, e una sola notizia: «Kabul è caduta nelle mani dei talebani». Così, a pochi mesi dal ritiro delle truppe statunitensi, finiva il sogno di una Repubblica afghana. Un progetto sviluppatosi sull’arco di vent’anni e crollato rapidamente, come un castello di sabbia, all’arrivo dell’onda bianca degli “studenti” coranici. Per la popolazione, in particolare quella femminile, cominciava allora un incubo. Quel 15 agosto è una giornata che gli afghani ricordano, semplicemente, come «il collasso». Un termine usato martedì anche dall’ambasciatore e rappresentante permanente dell’Afghanistan alla sede ONU di Ginevra, Nasir Ahmad Andisha, nel corso di una conferenza tenutasi all’USI di Lugano. Insieme a due compatrioti, dottorandi all’Università della Svizzera italiana e alla Sapienza di Roma, il diplomatico ha descritto la realtà del suo Paese, dedicando particolare attenzione alla tragica, violenta, quotidianità vissuta dalle donne afghane sotto il regime talebano. Abbiamo inquadrato la situazione con lui.

Nella mia vita adulta ho pianto due volte: la prima è stata alla morte di mia madre, la seconda quando è caduta Kabul

Lacrime per Kabul

Il rappresentante permanente all’ONU conosce bene la Svizzera: dal 2019 vive con la moglie e i tre figli a Ginevra. E durante l’incontro ha voluto soffermarsi sulle similitudini tra il proprio Paese e il nostro: «Come la Svizzera, l’Afghanistan è montagnoso, fieramente indipendente e ospita diverse culture e lingue. Posizionato in una zona strategicamente molto importante, ha attraversato numerosi conflitti ma aspira a pace e neutralità». Desideri che sembrano lontani dal realizzarsi. Proprio da Ginevra, Andisha ha seguito l’evolversi della situazione nell’estate del 2021. E la fine del Governo afghano ha rappresentato un duro, durissimo, colpo. «Quel 15 agosto è stato uno dei giorni più bui della mia vita. Kabul era la base su cui ho costruito, negli ultimi vent’anni (quelli della “ricostruzione” promossa dall’Occidente, ndr), educazione, lavoro, speranze. Avevo molti sogni per il futuro del Paese». In Afghanistan, il diplomatico aveva ancora famiglia: il padre, il fratello, le sorelle. I primi sono rimasti, nascondendosi dalla furia dei talebani, poco clementi con chi sosteneva le politiche liberali della Repubblica. Le altre, entrambe dottoresse, sono fuggite in Svizzera e ora studiano il francese, cercando di superare la barriera linguistica per rifarsi una vita. «Abbiamo perso tutto. Nella mia vita adulta ho pianto due volte: la prima è stata alla morte di mia madre, la seconda quando è caduta Kabul».

I talebani non cambieranno mai

Coraggio ed errori

Sconfitto l’esercito, cosa resta del Paese? «Gli afghani sono determinati a non lasciare la propria nazione nelle mani dei talebani». L’arrivo dei fondamentalisti ha portato alla cancellazione, per la popolazione femminile, di ogni possibilità professionale ed educativa, ogni libertà. Per questo, «oggi, le donne rappresentano il nuovo fronte di resistenza», spiega Andisha, che commenta: «La battaglia loro e di tutta la popolazione afghana sarebbe meno difficile se la comunità internazionale avesse garantito maggior supporto ai movimenti di resistenza, soprattutto nelle fasi iniziali. Pur di non irritare i talebani e mantenere aperti i canali diplomatici, molte nazioni si sono invece dimostrate pronte a sacrificare l’argomento dei diritti femminili. Alcuni politici mondiali — ricorda Andisha — mi dicevano di mantenere la calma: “I talebani sono cambiati, presto le cose torneranno normali”. Ma non è stato così: e a marzo 2022, quando i fondamentalisti non hanno riaperto le scuole alle giovani donne, il mondo ha capito il proprio errore. I talebani non cambieranno mai. Sta alla comunità internazionale cambiare, ma è pronta a farlo? Io credo di no».

Non aiuta, poi, che lo svilupparsi di un nuovo conflitto abbia catturato l’attenzione globale, distogliendola da Kabul. Dopo il cocente fallimento registrato in Afghanistan, il mondo sta già pensando a una nuova ricostruzione: quella dell’Ucraina. L’Occidente sbaglierà ancora, edificando su fondamenta troppo fragili? Notoriamente vittima di corruzione sistemica (numerosi gli studi che la piazzano ai primi posti mondiali), l’Ucraina fallirà nella sua ricostruzione? «Il problema maggiore verificatosi in Afghanistan è che nei primi anni 2000, quando c’erano una relativa pace e tempo per ricostruire, non sono stati fatti grandi investimenti. Al contrario, nel decennio seguente, i fondi inviati nel Paese sono aumentati a dismisura, ma a quel punto non era più possibile seguire in modo efficace il flusso di denaro e stabilire a chi erano affidati contratti e appalti. Il risultato? Molti di questi investimenti finivano per ricadere su compagnie occidentali, lasciando ben poco all’economia afghana. Il resto è finito per perdersi in corruzione o nelle tasche dei talebani stessi». Errori, questi, dai quali «l’Occidente e l'Ucraina devono imparare, se vogliono avere successo nella ricostruzione».

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Fra Qatar e Iran

Intanto, in Qatar, si stanno svolgendo i criticatissimi mondiali di calcio. Il Paese arabo attira sempre più i riflettori internazionali, e da tempo è base diplomatica dei talebani. Proprio qui gli “studenti” hanno siglato nel 2020 il famigerato trattato con Washington (Accordo di Doha) che ha portato al ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. Il Qatar continuerà a tollerare la politica talebana e ad ospitarne le missioni diplomatiche? «Il Qatar si è reso conto che la scommessa fatta sui talebani non ha pagato. In marzo, il ministro degli Esteri qatariota si era detto “deluso” dal rifiuto dei talebani di far tornare le giovani studentesse a scuola. Tramite questi accordi, il Qatar voleva proporre un’immagine positiva di sé, farsi mediatrice di pace, ma è stato un fallimento. Ora Dubai sta raccogliendo il testimone e ciò porterà ad ulteriori rivalità regionali».

Il Qatar si è reso conto che la scommessa fatta sui talebani non ha pagato

E, poco lontano, un altro regime sta facendo i conti con l’opposizione del popolo. In Iran, dopo la morte della giovane Mahsa Amini per mano della polizia morale, il popolo si sta sollevando per combattere una teocrazia che ignora i diritti delle donne e la libertà d’espressione. « Per quante difficoltà ci siano a Teheran, l’Iran garantisce alle donne l’accesso agli studi e allo sport. E ciò che sta accadendo lì spaventa i talebani. L’istruzione femminile è vista come un problema e la causa di queste rivolte. Ecco perché, in Afghanistan, i fondamentalisti si rifiutano di aprire le scuole». Fortunatamente, sottolinea il diplomatico, «i talebani non dispongono di mezzi tecnologici per negare alla popolazione l’accesso al web. La popolazione afghana è a conoscenza di ciò che sta succedendo in Iran e le due proteste sono connesse: le donne delle due nazioni si ispirano a vicenda. E credo che se il popolo iraniano dovesse avere successo nel rovesciare il regime, ciò potrebbe avere effetti importanti sull’Afghanistan».

E la Svizzera cosa fa? Alla serata ha partecipato anche Mirjam Eggli, vicecoordinatrice regionale per l’Asia meridionale al Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE). Esponendo l’azione elvetica a favore dell’Afghanistan e della sua popolazione, la diplomatica ha sottolineato l’impegno di Berna nella difesa dei diritti umani e l’operato nella gestione di fondi destinati a progetti locali. In particolare, la Svizzera fa parte di una fondazione creata a Ginevra con lo scopo di vegliare che alcuni fondi della banca centrale afghana, congelati con la caduta di Kabul, vengano utilizzati al meglio e non finiscano nelle mani dei fondamentalisti. «Pur costretti a parlare con i talebani, cerchiamo di non dare loro potere di negoziazione», ha evidenziato Eggli. Sul chiudersi dell’evento, l’avvocato ticinese Paolo Bernasconi è intervenuto rispondendo indirettamente alla diplomatica. «Ci sono Paesi vicini, come l’Italia, che organizzano corridoi umanitari, dando sostegno e rifugio ai profughi. La Svizzera non lo fa». Il legale ha poi raccontato il caso di una sua assistita, un’avvocata afghana che, a causa delle persecuzioni dei talebani, sta chiedendo l’aiuto di Berna per lasciare la regione. Malalai (nome di fantasia) ha difeso per un decennio, in collaborazione con diverse ONG svizzere attive in Afghanistan, i diritti delle donne e alla scolarizzazione. Attività, questa, che ha spinto i talebani a emettere nei suoi confronti un ordine di cattura. In fuga insieme alla famiglia — ha raccontato Bernasconi — la donna ha affrontato un pericoloso e costoso viaggio verso il Pakistan. Qui, alla luce del suo operato e delle passate cooperazioni con organizzazioni elvetiche, Malalai ha fatto domanda all’Ambasciata svizzera di Islamabad per ottenere un visto umanitario. Richiesta che, nonostante la documentazione presentata, è stata rifiutata. Alla serata, l’avvocato ticinese ha dunque lanciato la petizione a sostegno delle richieste della donna.
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