L'intervista

«Dall'Aja una scelta simbolica: la legge è uguale per tutti»

Forti reazioni internazionali hanno seguito la decisione del procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI) Karim Khan di chiedere mandati d’arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa Yoav Gallant e per tre leader di Hamas – Ne parliamo con il professore di diritto internazionale all’UniGe Marco Sassòli
© AP Photo/Peter Dejong
Giacomo Butti
22.05.2024 06:00

Dall’Aja a Tel Aviv, passando per Washington: forti reazioni hanno seguito la decisione del procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI) Karim Khan di chiedere mandati d’arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa Yoav Gallant e per tre leader di Hamas. Ne parliamo con il professore di diritto internazionale all’UniGe Marco Sassòli.

Lunedì, il procuratore capo della CPI, Karim Khan, ha chiesto mandati d'arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il ministro della Difesa Yoav Gallant. Nel mirino anche tre leader di Hamas. Come valuta, complessivamente, questa decisione?
«Penso che questa richiesta rappresenti un momento importante, simbolico, non solo per la Corte penale internazionale, ma per la credibilità di tutto il diritto internazionale umanitario. La CPI si era spinta a tanto solamente nei confronti di leader africani e, più recentemente, del presidente russo Vladimir Putin e della ministra Maria Lvova-Belova. Molti, dunque, non solo in Africa, hanno a lungo accusato la Corte di essere al servizio degli Stati occidentali, di operare con due pesi e due misure. C'erano pregiudizi e frustrazioni. Con questa mossa, il procuratore mostra invece che la CPI è in grado di agire nonostante le forti critiche di Israele e del suo grande alleato, gli Stati Uniti».

Critiche che, al di là dei contenuti, hanno riguardato anche le modalità dell'annuncio, arrivato contemporaneamente per Hamas e Israele. Ma così non si mette tutti sullo stesso piano?
«Si tratta di un appunto politico, diplomatico. Sì, Khan avrebbe potuto, forse, presentare prima le accuse rivolte ai leader di Hamas. Quello del 7 ottobre, del resto, rappresenta un caso più ovvio rispetto alle violazioni israeliane, più difficili da provare. Hamas non contesta nemmeno il massacro del 7 ottobre e ammette pubblicamente di avere degli ostaggi, fatto che di per sé rappresenta un crimine di guerra. Ma si può anche capire come con questa mossa, la decisione di includere entrambe le parti nello stesso documento, il procuratore internazionale abbia voluto sottolineare che violazioni sono state registrate da entrambe le parti».

Alcuni, in questi giorni, hanno contestato la competenza della CPI sul caso in questione. Al centro della critica, il fatto anche che la Palestina non sia riconosciuta come Stato, mentre Israele non ha firmato lo Statuto di Roma, il trattato istitutivo della CPI.
«È vero, Israele non è membro della CPI, ma la Palestina lo è dal 2015. La Corte – dopo aver ascoltato tutti gli argomenti – è arrivata a una decisione che definisce la competenza della Corte stessa su tutti gli atti commessi da palestinesi o da cittadini di altri Paesi sui territori palestinesi occupati. Si tratta di una decisione inoppugnabile».

Da mesi a questa parte, le pressioni internazionali sulle spalle di Khan e del suo team si sono moltiplicate. Settimane fa, in particolare, alcuni senatori repubblicani statunitensi avevano addirittura minacciato sanzioni contro tutti i collaboratori della Corte penale internazionale se avessero portato avanti il caso contro Netanyahu. Nelle ultime ore, tale minaccia si è concretizzata, con la Casa Bianca che si è detta aperta a valutare simili mosse. Che cosa ne pensa?
«In generale, come evidenziato a suo tempo dal procuratore stesso, azioni di questo tipo rappresentano un delitto ai sensi dell'articolo 70 dello statuto della CPI (reati contro l'amministrazione della giustizia, ndr). Minacciare giudici o procuratori per evitare che facciano il proprio lavoro rappresenta una pratica completamente inaccettabile, da mafiosi. Gli Stati Uniti di Trump già avevano imposto sanzioni contro il procuratore e membri della CPI per aver aperto un'indagine sull'operato di soldati americani attivi in Afghanistan, sanzioni poi tolte dall'amministrazione Biden. Con la questione ucraina e l'azione della CPI contro Putin, gli Stati Uniti avevano poi assunto una posizione molto favorevole nei confronti della Corte penale internazionale, ma ora le cose, con ogni probabilità, cambieranno nuovamente. Naturalmente questi senatori, trovandosi negli Stati Uniti (Paese al di fuori della giurisdizione CPI, ndr), non possono essere perseguiti in base all'articolo 70. Ma se venissero in Svizzera o in qualsiasi altro Paese sotto la competenza della CPI, chissà: in teoria, in questo caso, potrebbero essere posti sotto accusa».

Torniamo al mandato d'arresto. Un po' come nel caso di Putin, è improbabile che, dovesse essere confermato dalla CPI, tale ordine sia messo in pratica, specialmente per i leader di Hamas. Due si troverebbero a Gaza, il terzo, invece, in Qatar, fuori dalla giurisdizione della CPI.
«Sì, questo è vero. L'ex presidente del Sudan Omar al-Bashir (contro il quale fu emesso un mandato d'arresto nel 2009 con le accuse di crimini contro l'umanità e crimini di guerra, ndr), ad esempio, non è ancora stato arrestato. E così anche Putin. Ma siccome questi crimini non conoscono prescrizione, non è detto che ciò non avvenga ad anni di distanza. Certo è che, per Netanyahu, un'eventuale conferma del mandato rappresenterebbe immediatamente un problema più grande di quello che dovranno affrontare i leader di Hamas. Il premier israeliano non potrebbe, infatti, viaggiare all'estero, verso Paesi membri della CPI: rischierebbe l'arresto».

Pur avendo giurisdizione sugli individui e non sugli Stati (a differenza della Corte internazionale di giustizia, CIG), insomma, l'azione della CPI rischia di avere un'influenza su un intero Paese.
«Sì, e forse gli israeliani decideranno che è nel loro interesse avere un altro premier, uno che possa viaggiare dappertutto. Se Netanyahu dovesse essere accusato di crimini di guerra, necessariamente anche l'armata israeliana sarebbe ritenuta responsabile di violazioni del diritto umanitario. Con una responsabilità dello Stato, i militari israeliani potrebbero essere i prossimi a essere indagati».

Se il procedimento dovesse proseguire, dunque, ritiene probabile un'estensione di queste indagini?
«Sì, ma il procuratore punterà sempre ai massimi responsabili di eventuali crimini, anche per incoraggiare la giustizia locale a muoversi per evitare che connazionali si trovino di fronte alla Corte penale internazionale. Prendiamo il caso dell'Ucraina: i russi indagati sono al momento quattro. Tuttavia, pur essendo molto indipendente, è difficile che la giustizia israeliana indaghi autonomamente contro Netanyahu. Lo abbiamo visto nelle guerre di Gaza del 2014: qualche soldato è stato condannato per furti. Ma per gli attacchi indiscriminati contro ospedali e simili non c'è mai stato un colpevole. Si tratta di un limite della giustizia in un Paese che, comprensibilmente, si trova ancora sotto shock per gli attacchi del 7 ottobre. Eppure, come evidenziato dal procuratore Khan nella sua dichiarazione, pur con tutte le ragioni per portare avanti una guerra, Israele lo deve fare nel rispetto delle regole».

Una provocazione: il diritto internazionale, tra difficoltà nell'applicazione e minacce ai procuratori, ha ancora senso d'esistere?
«Sì, anzi: a livello mondiale, la decisione di lunedì ha rinforzato il diritto internazionale. Come già evidenziato, ha screditato l'idea che si tratti di un diritto degli occidentali contro i Paesi del terzo mondo. La legge è uguale per tutti. Poi, naturalmente, i procuratori non possono cambiare la realtà dei conflitti armati. Ogni soldato dovrà esprimere la volontà di rispettare questo diritto».