Approfondimento

Dalle «vele per ricchi» in Costa Azzurra al fallimento di Scampia

Da Le Corbusier all'utopia delle micro-città degli anni 60 e 70: progetti destinati a fallire? Il prof. Gabriele Neri dell'USI: «Ci sono esempi di successo, ma la sfida del futuro è aggiornare le strutture piuttosto che demolirle»
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Michele Montanari
08.02.2023 19:31

Siamo in Costa Azzurra. Percorrendo l’autostrada da Nizza e Cannes è impossibile non notarle quelle quattro piramidi. Fanno parte del complesso Port de Marina Baie des Anges, a Villeneuve-Loubet. Sono alte 70 metri e coprono totalmente la vista sul mare. Un “ecomostro”, vien da pensare. E il paragone con le Vele di Scampia è immediato, perché, queste, sono decisamente più famose: sono diventate il simbolo di degrado che per anni ha occupato le pagine dei giornali italiani e non solo. Qui, nel sud della Francia, è tutto diverso: gli appartamenti, circa 1600, non sono proprio alla portata di tutti, anzi. È un posto solo per ricchi, o comunque per persone parecchio benestanti.

Port de Marina Baie des Anges e le Vele del quartiere di Napoli sono complessi residenziali molto simili, almeno a guardarli con occhio inesperto, ma hanno avuto un destino opposto. Da una parte, una megastruttura ambita, tuttora attiva e funzionante, dall’altra un fallimento su tutta la linea: 4 delle 7 vele sono state abbattute. E alla fine ne resterà soltanto una. Ma oggi che ne è di tutti questi edifici figli degli anni Sessanta e Settanta che hanno certamente assorbito la lezione dell’Unité d’habitation di Le Corbusier? Tornerà la stagione degli edifici simili a micro-città? Abbiamo approfondito l’argomento con il professor Gabriele Neri, docente presso l’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana.

L’utopia delle micro-città

Partiamo dal confronto tra gli edifici della Costa Azzurra e di Napoli, c’è qualche similitudine? Il professor Gabriele Neri puntualizza: «C’è un’idea comune alla base di questo approccio all’abitare, all’architettura e all’urbanistica. Port de Marina Baie des Anges e le Vele di Scampia sono due grandi complessi di edifici con alla base, almeno in teoria, l’idea di condensare tanti abitanti per poter fornire insieme agli appartamenti una vasta serie di servizi. La grande densità e la massa di persone favorisce una concentrazione che dovrebbe essere accompagnata da servizi. Questo è un modello su cui si è basata molta dell’architettura residenziale del Novecento. E anche prima, se pensiamo al falansterio di Charles Fourier». L’architetto aggiunge: «Nella struttura francese e in quella italiana è presente, in diversa misura, una visione utopica dell’architettura, concretizzata in grandi complessi che, avendo una scala così ampia, non sono neanche più edifici. Sono quasi delle micro-città, dentro le quali riunire centinaia di famiglie. Un sogno che forse oggi penseremmo anche in chiave di ecologia e consumo del territorio da non sprecare, condensando il costruito solo in alcuni punti. Nella concentrazione delle persone vi è l’idea di favorire degli scambi, di favorire la fruizione di servizi, che possono andare dalla scuola allo sport, sino alla sanità. Il tutto nello stesso luogo».

Una stessa idea, destini diversi

Il docente dell’USI continua: «I progetti della Costa Azzurra e di Napoli partono da un’utopia, ma i modi con cui questa si è compiuta sono molto differenti e dipendono da tanti fattori, non soltanto architettonici. Dipendono da questioni urbanistiche, politiche, sociali, ed economiche. Sono quasi contemporanei: a Scampia il progetto inizia nel ‘62 e finisce nel ‘75, invece in Francia va dal ‘69 agli anni Novanta». E ancora: «Dal punto di vista estetico, il profilo di entrambi gli edifici può essere paragonato a delle piramidi, a onde o a vele; sono forme che cercano anche di distanziarsi dalle forme più astratte e ripetitive (di solito grandi parallelepipedi) viste in molte periferie in tutto il mondo. Soprattutto nel caso francese, sullo sfondo delle Alpi marittime e del mare della Costa Azzurra, la creazione di questo paesaggio artificiale può ispirare diverse immagini e metafore».

Il fallimento dell’architettura moderna

Scampia. ©Shutterstock
Scampia. ©Shutterstock

Invece, nel complesso di Scampia, ci sono anche i vicoli di Napoli. Il professor Neri entra nei dettagli: «Le Vele partenopee, progettate dall’architetto Franz di Salvo, sono più complesse. Sono progetti molto particolari dal punto di vista architettonico, ad esempio perché al loro interno convivono l’idea della “megastruttura” (cioè di un edificio talmente esteso da raggiungere una dimensione quasi infrastrutturale); l’esempio dell’Unité d’habitation di Marsiglia di Le Corbusier, che è un modello per questa tipologia; e il lavoro del grande architetto giapponese Kenzō Tange, allora molto seguito. Ma nelle Vele di Scampia c’è anche il riferimento esplicito ai vicoli di Napoli, quindi a una scala molto più minuta dell’architettura e della città. È quasi un paradosso: all’interno di una megastruttura, all’interno di un’utopia dell’architettura moderna, si è tornati a guardare a modelli di insediamento più antichi, cercando di replicarne alcune caratteristiche. Penso al sistema degli ingressi o al tentativo di ricreare una dimensione di vicinato all’interno di grandi contenitori che invece potrebbero perderla risultando alienanti». Una dimensione che potremmo definire più popolare, dunque. A tal proposito il docente aggiunge: «Le Vele furono destinate alle classi meno agiate. Le dimensioni ridotte delle abitazioni sarebbero però state, in teoria, “recuperate” nei servizi collettivi concessi in altre parti dell’edificio. Fu insomma un progetto ambizioso e complesso, che però non ha avuto uno sviluppo felice, perché le idee iniziali sono rimaste incompiute, come altrove in Italia. Penso, ad esempio, al Corviale di Roma, un edifico lungo un chilometro: con simili dimensioni non parliamo più di “casa”, di “condominio”; piuttosto parliamo di una grande infrastruttura le cui parti private devono essere sostenute dai servizi. Se i servizi non funzionano, come in buona parte è accaduto a Scampia e al Corviale, è chiaro che l’utopia crolla, perché le basi per realizzarla sono incomplete, e quindi iniziano i problemi.

Nel caso di Napoli, i problemi sono stati moltissimi», sottolinea l’esperto: «Dopo il terremoto dell’Irpinia nel 1980 sono arrivati molti abitanti, andando così oltre al numero prestabilito pensato per quegli edifici. Sono iniziati i fenomeni di sovraffollamento e si è consolidato il “monoclassismo”, invece di avere una eterogeneità di categorie sociali. Gli appartamenti delle Vele sono stati assegnati a disoccupati; qualcuno, usando un termine di altri tempi, ha parlato di plebe. Le abitazioni sono state occupate da famiglie con problematiche economiche e sociali anche molto importanti. E da qui, poi, sono arrivate altre questioni: il vandalismo, le carenze manutentive, la criminalità e la mancanza di un controllo da parte dello Stato. Se mettiamo insieme tutti questi tasselli (sovraffollamento, "monoclassismo", incompiutezza dei servizi, ecc.) risulta chiaro che il progetto ha iniziato a sgretolarsi da subito, fino ad arrivare alla demolizione, cioè l’emblema del fallimento dell’utopia». Il professore prosegue: «Scampia non è il solo caso di questo fallimento. Un altro esempio famoso lo troviamo negli Stati Uniti: si chiama Pruitt-Igoe. Si tratta di un complesso realizzato negli anni Cinquanta a Saint Louis, in Missouri, composto da grandi casermoni, molto noti perché progettati da Minoru Yamasaki, l’autore delle Torri Gemelle. Doveva essere un quartiere modello per recuperare gli slums, ossia i quartieri disastrati della Saint Louis di quel tempo. Pruitt-Igoe è stato un disastro incredibile: carenze manutentive, disoccupazione, la crisi economica, la mancata integrazione tra neri e bianchi che erano stati messi in quel quartiere, eccetera… Nel 1972, proprio mentre le Vele di Scampia crescevano, questo complesso veniva demolito. Il video dell’abbattimento di Pruitt-Igoe è diventato molto famoso e qualcuno lo ha interpretato come il simbolo del fallimento dell’architettura moderna. Cioè quell’architettura che sognava i grandi ensemble abitativi, poi distrutti per quanto erano fallimentari».

Una risposta di successo al turismo

Port de Marina Baie des Anges. ©Shutterstock
Port de Marina Baie des Anges. ©Shutterstock

Se da una parte si parla di fallimento, dall’altra si constata il successo, quello di Port de Marina Baie des Anges, legato sostanzialmente al turismo. Gabriele Neri ci accompagna nel sud della Francia: «In Costa Azzurra abbiamo un altro tipo di situazione, di finalità e di contesto. In un momento di forte espansione turistica, in una zona fantastica dal punto di vista ambientale, sono state create queste altre “vele”, meno complesse dal punto di vista architettonico rispetto a quelle di Scampia. Questi edifici sono stati creati per ospitare un altro tipo di utenza, un altro tipo di società. All’interno di Port de Marina Baie des Anges c’è un porto turistico con gli yacht e barche di vario tipo; ci sono servizi di tutt’altra natura, dalle piscine alla talassoterapia. Le "vele" di Villeneuve-Loubet e di Scampia hanno forme simili, che derivano da una simile cultura architettonica, da un simile sogno dell’architettura del Novecento, ma vanno a concretizzarsi in due contesti diversi e con una gestione e una storia totalmente differenti». L’architetto constata: «Il successo o l’insuccesso ci ricordano un tema fondamentale nell’interpretazione dell’architettura, ovvero l’impotenza, o la potenza relativa, del progetto architettonico. Il progetto architettonico è fondamentale: può indirizzare, bene o male, in una direzione o in un'altra, la vita degli abitanti. Allo stesso tempo, l’architettura, da sola, non è però sufficiente: come tante altre discipline, questa ha bisogno di un supporto economico, politico e culturale molto ampio, specie per strutture di questo tipo. Il progetto delle Vele di Scampia può essere giudicato dal punto di vista architettonico, ma non basta. A Napoli sarebbe stato necessario un impegno molto più vasto, innanzitutto da parte della politica, per sviluppare il progetto nel modo in cui era stato previsto, con poi gli eventuali aggiustamenti di percorso».

Per il professore, «Costa Azzurra e Scampia sono strutture molto simili a un primo sguardo, in quanto il concetto e l’immagine scultorea degli edifici li può far somigliare; però è proprio il contesto nel quale sono ubicati che cambia totalmente. Quello di Scampia è stato fatto per stimolare la costruzione di complessi che oggi chiamiamo sbrigativamente “case popolari”, da leggere nella società italiana di fine anni Cinquanta-inizio anni Sessanta, caratterizzati da tantissimi problemi sociali. Port de Marina Baie des Anges è tutt’altra cosa: parliamo di una zona in riva al mare, in pieno sviluppo turistico. Potremmo trovare molti altri esempi, nel mondo, di edifici basati sul concetto di grandi assembramenti di persone, di grande densità abitativa, fatti come una vela o con altre forme, ma che hanno avuto, a seconda dei casi, fortuna o insuccesso».

Un ingombrante edificio tra il mare e le Alpi

Port de Marina Baie des Anges. ©Shutterstock
Port de Marina Baie des Anges. ©Shutterstock

Ma se in Francia tutto funziona alla grande, sorge un altro tipo di dubbio: come valutare quelle costruzioni così ingombranti, situate tra il mare e le Alpi marittime? Qualcuno parlerebbe di ecomostro, nonostante le "vele" siano considerate patrimonio nazionale francese del XX secolo. La parola al professor Neri: «Sono decisamente invasive dal punto di vista paesaggistico ma, anche qui, bisogna pensare a quegli anni, all’onda lunga del Dopoguerra, dalla ricostruzione sino al benessere che aumentava, al consumismo, l’utilizzo dell’automobile, quindi sino alla spinta turistica che ha coinvolto anche l’Italia.

Pensiamo alla Liguria, ad esempio, in cui negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta sono stati fatti degli scempi incredibili». L’architetto aggiunge: «La domanda era: se ho mille famiglie che vogliono la casa al mare, cosa faccio? Semplificando: o realizzo mille casette unifamiliari che vengono sparse sul territorio, oppure creo un solo complesso abitativo come le "vele", con centinaia di abitazioni tutte concentrate. Da un punto di vista volumetrico, se si nuota davanti alla costa, chiaramente la seconda opzione è molto più visibile rispetto a tante piccole casette. Stiamo parlando di due diverse strategie di consumo del territorio. Se mille famiglie vogliono la casa in Costa Azzurra, in riva al mare, avremo quella spinta e quell’urbanizzazione. Poi ci sono vari modi di applicarla. Possono piacere o non piacere, c’è chi potrebbe vederle come delle sculture nel paesaggio, quasi delle opere di land art, in grado di creare un certo tipo di rapporto tra il tema delle onde e delle montagne. Certo è che sono dei grandi elementi artificiali che dimostrano il tipo di urbanizzazione, più o meno selvaggia, che c’è stata tra gli anni Cinquanta e Settanta in molte parti dell’Europa».

Quale futuro per le megastrutture?

La Cité du Grand-Parc a Bordeaux. ©YouTube
La Cité du Grand-Parc a Bordeaux. ©YouTube

Con l’aumento della popolazione mondiale e il costante arrivo di migranti in Europa, è pensabile un ritorno alle megastrutture degli anni Settanta? Che ne è stato di quell’utopia? Il docente dell’USI spiega: «Dopo la stagione, in parte fallimentare, di questo genere di progetti, c’è stata una sorta di marcia indietro. Negli ultimi anni del Novecento si sono preferiti altri modelli abitativi. Come dire: visti i rischi, si è cercato un altro tipo di modello insediativo, privilegiando una minore densità abitativa. Negli anni Duemila abbiamo però tanti casi, molti nei Paesi Bassi, che sono davvero interessanti. Possiamo parlare di grandi unité d'habitation che, aggiornate dal punto di vista architettonico e di visione sociale, hanno dimostrato come invece ci possano essere delle buone pratiche. Quindi in realtà è una ricerca che continua ancora oggi».

Il professor Gabriele Neri azzarda qualche previsione: «Pensando al futuro, oltre alla nuova costruzione, un grande tema è il riuso degli edifici di questo genere, per esempio nelle nostre periferie. Forse la sfida più grande sarà quella di pensare a cosa farne delle “megastrutture”, che siano vele o scatoloni, costruite tra gli anni Sessanta e Settanta in Europa. Stiamo parlando di edifici presenti un po’ ovunque, in Svizzera, in Italia, in Francia e in tanti altri Paesi». L’architetto conclude: «La grande sfida si gioca sulla reinterpretazione, il miglioramento e sull’aggiornamento di queste strutture. Oggi ci sono degli esempi molto interessanti in Europa. Uno recente, tra i più famosi, è quello degli architetti Lacaton e Vassal per la periferia di Bordeaux, dove invece di abbattere hanno cercato di migliorare gli spazi e le strutture esistenti di grandi complessi abitativi. Un’alternativa anche sostenibile. Questo intervento dimostra come sia possibile non soltanto distruggere e ricostruire, ma anche operare degli aggiornamenti intelligenti e critici del nostro paesaggio quotidiano».

 

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