Diritti

Dall'«hotel dei maiali» ai wet market: quando gli animali sono solo oggetti

Inaugurato in Cina un mattatoio di 26 piani, ma gli allevamenti intensivi sono un problema in tutto il mondo – Greta Di Fiore di Animal Equality: «Situazioni terribili e non più sostenibili»
L'«hotel dei maiali» di Ezhou.
Michele Montanari
02.12.2022 16:00

L’hotel dei maiali. È stato ribattezzato così il maxi-edifico destinato all’allevamento di suini inaugurato lo scorso ottobre a Ezhou, nella provincia cinese dell'Hubei. Ventisei piani di morte in cui verranno macellati circa 1,2 milioni di maiali all'anno, senza che questi abbiano mai messo le zampe sull’erba o visto la luce del sole. La Cina ha costruito l'imponente struttura per rispondere alla crescente domanda di carne suina, la proteina animale più diffusa nel Paese. Un allevamento intensivo «sotto steroidi» che stride terribilmente con l’idea di un mondo più ecosostenibile. Senza contare la questione legata ai diritti degli animali, sistematicamente calpestati in tutto il mondo, non solo in Cina. Affrontiamo l’argomento con Greta Di Fiore, communication coordinator di Animal Equality Italia, organizzazione internazionale non-profit per la protezione degli animali.

La versione distopica di un allevamento intensivo

«L’edificio per i maiali cinese è una sorta di versione distopica degli allevamenti intensivi», commenta Greta Di Fiore, sottolineando che «gli animali, in tutto il mondo, non solo in Cina, vivono rinchiusi in capannoni in cui spesso non possono vedere la luce del sole e non hanno accesso al pascolo. Vivono in condizioni di estrema frustrazione, paura e dolore. L’idea cinese di espandere strutture del genere, facendole addirittura su più piani per massimizzare la produzione, è spaventosa». Secondo l’attivista, infatti, in questo modo «ci si sta muovendo nella direzione opposta a quella verso cui dovremmo andare. E questo viene detto dalle istituzioni e nei convegni come la COP: tutti convergono nell’affermare che un mondo in cui l’allevamento intensivo è il sistema di produzione alimentare principale, non è più sostenibile. È necessario prendere un’altra strada. Vedere la costruzione di questo palazzo per maiali, che viene chiamato in modo abbastanza macabro “pig hotel”, è inquietante. Ovviamente saranno gli animali a pagare il prezzo più alto».

Irregolarità in tutto il mondo

L’edificio di Ezhou è però solo la punta dell’iceberg perché, secondo la rappresentante di Animal Equality, «dietro agli allevamenti intensivi e alla produzione di carne c’è un sistema alimentare molto forte, che smuove miliardi di dollari ed è quindi difficile da contrastare. Questo è il problema alla base dell’allevamento intensivo: gli animali vengono stipati in questi luoghi perché sono considerati ingranaggi del sistema di produzione, non sono visti come esseri senzienti. Sono solo numeri, oggetti, non si dà loro troppa considerazione. Per questo poi assistiamo a numerosi casi di maltrattamento e di degrado». E la Cina non è certo la sola a mettere in scena questi spettacoli dell’orrore. Greta Di Fiore racconta: «Non si può parlare di Paesi più o meno virtuosi, perché quello che accade in Cina avviene in tante altre Nazioni. Noi di Animal Equality facciamo inchieste negli allevamenti di tutto il mondo, abbiamo investigato centinaia di strutture sparse tra Europa, America, Sudamerica e Asia: in tutti i casi abbiamo riscontrato irregolarità. Lo stato di questi luoghi è sempre inadeguato per gli animali, che sono costretti a vivere tra escrementi o in condizioni di sovraffollamento. Certo, ci sono Paesi in cui le norme a tutela degli animali sono più stringenti. In generale, l’Unione europea ha una regolamentazione che dovrebbe tutelare gli animali allevati a scopo alimentare, ma, nonostante le norme, abbiamo documentato situazioni terribili. Ad esempio, in Italia, dove dovrebbero esserci standard elevati, abbiamo trovato irregolarità negli stabilimenti per la produzione di carne nel triangolo tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna». E continua: «È molto difficile dunque parlare di casi isolati, perché dai nostri lavori, ma anche da quelli di altre organizzazioni, emergono situazioni tremende. Le leggi ci sono, ma la logica del profitto ha sempre la meglio».

In Cina, la carne di maiale non è sempre stata così diffusa. Il boom è arrivato negli ultimi 50-60 anni: il consumo di carne suina è passato da 5 kg a persona all’anno a 60 kg

Un modello insostenibile

Un Paese popoloso come la Cina, in cui vi è una forte richiesta di carne suina, come può trovare un modello alternativo ai «palazzi della morte»? La nostra interlocutrice non ha dubbi: «La risposta è semplice: non può. In Cina, la carne di maiale non è sempre stata così diffusa. Il boom è arrivato negli ultimi 50-60 anni: il consumo di carne suina è passato da 5 kg a persona all’anno a 60 kg. È stata una svolta abbastanza recente, perché in Cina, ma in generale in Asia e in Africa, noi occidentali abbiamo esportato questo modello alimentare: mangiare la carne di maiale è diventato una sorta di simbolo di ricchezza e di accesso a determinati prodotti. Questo modello non è più sostenibile: oggi, nel mondo, si allevano 70 miliardi di animali per soddisfare la richiesta attuale di carne. Se anche nei Paesi in cui si consumava meno dovesse esserci una richiesta così alta, si rischia, tra una trentina di anni, di dover allevare 140 miliardi di animali. Questo è insostenibile e fisicamente impossibile: non ci sono le risorse per farlo.  Anche se decidessimo di rinchiudere tutti gli animali allevati in palazzi come quello cinese, al di là del fatto che è totalmente contrario alla logica del rispetto dei diritti degli animali, mancherebbero tutte le risorse per allevarli, nutrili e dissetarli». Greta Di Fiore commenta: «La realtà è che gli allevamenti intensivi non dovrebbe esistere. Non sono sostenibili e bisogna trovare una soluzione alternativa. L’alimentazione del futuro dovrà essere orientata verso la produzione di proteine vegetali, perché altrimenti dovremo pensare a grattacieli stipati di animali, che sono un’assurdità. Il cambiamento deve essere economico e culturale, in tutti i Paesi».

«Non c'è un modo etico di uccidere gli animali»

 L’hotel dei maiali è un’esagerazione difficilmente tollerabile, ma che ne sarà degli allevamenti etici sul territorio? Delle piccole fattorie? Dei macellai locali? Sarà questo il modello alimentare dominante per quanto riguarda la carne? L’attivista puntualizza: «In generale, la missione di Animal Equality è vivere in un mondo in cui nessun animale debba essere sfruttato a scopo alimentare. Per noi non esiste un’etica che prevede un modo giusto di allevare e uccidere gli animali. Detto questo, sicuramente un primo passo è iniziare a scardinare il sistema di allevamento intensivo. Sappiamo quanto sia difficile scardinare l'attuale sistema alimentare, che è presente da tutto il tempo in cui siamo sulla Terra. Però è giusto cercare di raggiungere dei traguardi intermedi. Noi lavoriamo con le associazioni, le aziende e le istituzioni, affinché le condizioni di vita degli animali inizino quantomeno a migliorare negli allevamenti e nei macelli, ma l'obiettivo è quello di scardinare l'intero modello alimentare basato sulle proteine animali. E questo non lo diciamo solo noi, lo dicono i report scientifici, secondo cui non è possibile dal punto di vista ecosostenibile continuare su questa strada».

La pandemia e i wet market

Quando si parla di animali in Cina è impossibile non menzionare i cosiddetti wet market, i «mercati umidi» in cui gli animali vengono ammassati in gabbie per poi essere uccisi e venduti. Oltre ad essere luoghi aberranti da un punto di vista etico, sono estremamente pericolosi per la diffusione dei virus. La pandemia, in questo senso, ha attirato l’attenzione della comunità internazionale, dopo che si è fatta strada l'idea che il coronavirus fosse arrivato proprio da un mercato di animali cinese. Dopo l'emergenza sanitaria è davvero cambiato qualcosa? La communication coordinator di Animal Equality constata: «Quando i riflettori della comunità internazionale si spengono, le cose, purtroppo, tendono a tornare come prima. Abbiamo fatto inchieste e campagne, abbiamo raccolto mezzo milione di firme, poi consegnato all’ONU, proprio per riconoscere i rischi legati alla diffusione dei virus nei wet market. Inoltre, nel 2021, l’OMS, l'Organizzazione mondiale della sanità animale e il Programma dell’ONU per l’ambiente, hanno chiesto di sospendere a livello mondiale la vendita dei mammiferi selvatici nei mercati tradizionali». Greta Di Fiore conclude: «Questi problemi non sono spariti. Noi associamo i wet market alla Cina perché è il Paese in cui sono più diffusi, ma in realtà sono presenti anche in altre zone dell’Asia, in Africa e in Sudamerica. Diverse Nazioni hanno vietato la vendita di alcune specie di mammiferi, ma i wet market esistono ancora, nonostante la pandemia».

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