David Grossman: «Questa è una vita insopportabile per noi israeliani e per i palestinesi»
Nei momenti più bui, spesso cerchiamo la luce nelle persone che più ammiriamo. E se non una luce, almeno una voce, che ci faccia capire che non siamo soli. Ebbene, di fronte a questa nuova guerra, che così drammaticamente ha coinvolto, una volta ancora, Israele, abbiamo trovato il privilegio di parlare con David Grossman, la cui voce si è già manifestata, in questi giorni, con una potenza rara; una potenza che d’altronde ne caratterizza l’opera e la personalità. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua casa, nei pressi di Gerusalemme.
David Grossman, mentre parliamo, l’esercito israeliano pianifica l’entrata a Gaza. Abbiamo paura di ciò che potrà succedere. Che cosa accadrà davvero?
«Dobbiamo cominciare facendo qualche passo indietro. Qualche giorno fa c’è stato l’attacco più barbaro ai danni dei cittadini israeliani. Stiamo parlando di centinaia di vittime, numeri senza precedenti nel conflitto. Sono stati uccisi neonati, bambini, donne incinte, anziani, malati. Tutti ne sono usciti con addosso ferite, in un modo o in un altro. E quindi Israele ha deciso, in risposta, di porre fine al regime di Hamas, che non governa solo a Gaza, ma anche nel sud di Israele. Di tanto in tanto, Hamas decide di voler combattere. Lo fa per i suoi scopi. Ci siamo ritrovati in un vortice di violenza e odio. I primi giorni sono stati una sorta di ritorsione, di vendetta, e l’aviazione israeliana ha bombardato di continuo. Oggi siamo in una situazione in cui troviamo un po’ di tutto, di odio, di vendetta, di idee legittime, di piani per catturare e punire i leader di Hamas. Molti palestinesi saranno colpiti. E allora la cosa più importante sarà tenere gli occhi ben aperti e capire quando gli scopi legittimi di questa rappresaglia di Israele finiranno e comincerà la vendetta. La vendetta è un’emozione umana molto forte, a volte è inevitabile. Ed è difficile da criticare, anche perché chi è nel pieno di una vendetta ha gli occhi inondati di sangue. Ma dobbiamo comunque assicurarci che Israele agisca solo in modo legittimo e che non ceda alla vendetta».
Fino a che punto potrà spingersi l’esercito, allora?
«Gli esperti militari ci dicono che è impossibile non entrare a Gaza, ora come ora. Ma se vogliamo cambiare la situazione, nostra e dei palestinesi, e se vogliamo porre fine agli attacchi di Hamas, occorre iniziare un negoziato vero e proprio, un dialogo o un cessate il fuoco per dieci o vent’anni. E anche così facendo, penso che dovremo mantenere la capacità di monitorare ogni passo che fanno e che faranno, perché Hamas ci ha già dimostrato di non poter essere affidabile. E forse, allora, dovrebbe esserci anche una forza internazionale, molto pratica ed efficace, che faccia da cuscinetto tra Israele e Hamas e che impedisca il ripetersi di fatti come quello di sabato scorso».
Lei ha recentemente scritto: «Milioni di israeliani volevano creare uno Stato liberale, democratico, pacifico, pluralista, rispettoso delle fede di ciascuno». Così ha descritto la casa ideale degli israeliani. Oggi come descriverebbe questa casa, Israele?
«Una casa in costante pericolo. Credo che ciò che si sta impadronendo di molti israeliani - anche se non di tutti, sia chiaro - sia la sensazione di dover reagire ancora più forte. Che senza una reazione di questo tipo il loro Paese, la loro casa, sarà sempre in pericolo. C’è una sensazione di pericolo esistenziale e, quindi, l’idea di dover combattere per proteggere le proprie famiglie, le proprie case. Non stiamo parlando di un’operazione militare astratta. Quel che è accaduto sabato è che, se i terroristi non fossero stati fermati subito, avrebbero invaso Israele, arrivando a Tel Aviv. Tel Aviv non è molto lontana dalle aree attaccate da Hamas. Stiamo quindi parlando di un pericolo reale. E ogni israeliano allora può parlarvi del pensiero di svegliarsi al mattino e di scoprire che Hamas è a Tel Aviv, nel cuore di Israele, il tutto mentre Hezbollah ci attacca da nord. Quindi sì, la reazione degli israeliani, che in questo momento può apparire vendicativa, è molto più radicata nella realtà. Ma ricordiamoci di una cosa: non tutta Gaza è Hamas. I palestinesi sono stati trascinati in questo conflitto contro la loro volontà, terrorizzati dalla tirannia di Hamas. E ricordiamoci un’altra cosa: che vivremo fianco a fianco con il popolo di Gaza per il resto della nostra vita e della loro vita, per molte generazioni. E allora ecco perché dobbiamo essere più responsabili. Mi ha fatto molto piacere, in questo senso, vedere che Israele ha proposto i corridoi umanitari, perché è una dimostrazione di buona volontà. Chi ha rifiutato questa idea è Hamas, che vuole usare il suo popolo come scudo umano, in modo tale che le superpotenze cessino di sostenere Israele. È una situazione molto delicata e complicata. Un dilemma. Ma aggiungerei un ulteriore aspetto al ragionamento».
Quale?
«In questo momento Israele beneficia del sostegno e della simpatia di molti Paesi. Ogni Paese ha visto le immagini terribili di sabato scorso e non può provare che comprensione verso Israele e gli israeliani. Ma non durerà a lungo. Mi sono già arrivati echi in questo senso, anche dalle università americane. Ci sono gradi di malvagità e gradi di empatia, e a volte l’obiettività è solo una scusa per non prendere una posizione coraggiosa, nonostante la difficoltà della situazione».
Perché, a suo modo di vedere, quando c’è di mezzo Israele la lettura della storia è tanto divisiva?
«L’antisemitismo è antico quanto l’ebraismo. Israele simboleggia tante cose agli occhi del mondo. E gli ebrei, insomma, non sono mai stati presi per quello che erano, che sono. C’è sempre stata, intorno a loro, un’eco singolare, di una storia più grande della vita stessa. L’antisemitismo è una delle forme più gravi di razzismo e come tale va denunciato. Anche quando critico Israele per la sua lunga occupazione, 56 anni di occupazione ai danni dei palestinesi, non dimentico quanto ottenuto da Israele, come gli israeliani siano stati in grado di costruire questo Paese, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, della Shoah; un Paese che è un miracolo secolare, con una cultura e un’agricoltura sorprendenti, con le sue industrie e la sua alta tecnologia, e persino con questo esercito, che spesso critichiamo. Senza questo esercito, non saremmo sopravvissuti neppure un’ora. E questo è chiaro a tutti, e l’ho sentito dire anche da amici palestinesi, egiziani, iracheni e giordani. Senza l’esercito non saremmo sopravvissuti qui. La questione allora è come regolare, bilanciare e monitorare l’enorme potenza militare che abbiamo. E nei prossimi giorni sarà molto difficile raggiungere questa sobrietà».
Lei, in riferimento ai fatti di sabato, ha parlato di tradimento da parte della politica. Ora quale azione o reazione della politica potrebbe in qualche modo riconciliare la popolazione di Israele con il suo Governo?
«Sarebbe necessario che i nostri leader non mischiassero i propri interessi personali con quelli della società tutta. Non siamo convinti, evidentemente, che Netanyahu rappresenti questa necessità. Le cose che sentiamo ci provocano imbarazzo e ci spaventano. E noi, be’, meritiamo un leader migliore, un leader che sia tale al cento per cento, più attento a prendersi cura del Paese che non dei suoi propri interessi».
In Vento Giallo, nel 1988, scrisse: «L’occupazione corrompe i palestinesi e corrompe noi israeliani. Ma non può durare, il malcontento arabo sta per esplodere». Ma che cosa avrebbe potuto evitare a Israele e Palestina di arrivare lì una volta ancora?
«Be’, in primis avrebbe dovuto finire l’occupazione stessa. Ciò non basterebbe a portare la pace. Dovrebbero passare anni senza violenza. In modo tale che israeliani e palestinesi imparino a trattarsi vicendevolmente in modo equo. Non sto parlando di amore tra i popoli. Sto parlando di comprensione reciproca, di accettazione reciproca, di curiosità reciproca, di guardarsi gli uni gli altri attraverso le lenti dell’autenticità, pur in una cultura ricca di contraddizioni interne. Sto parlando di liberarsi dei pregiudizi e degli stereotipi. Ci vorranno anni. Serve un’educazione profonda. Tutto ciò ha pochissime possibilità di realizzarsi. Eppure, se non ci proviamo, se non lo facciamo, siamo condannati, soggiogati a uno spargimento di sangue ogni tre, ogni cinque anni. E questo è insopportabile. È una vita insopportabile per noi e per i palestinesi. Le persone migliori di entrambe le parti stanno lasciando il loro Paese per vivere all’estero, in luoghi più sicuri. Vorrei che trovassimo un posto in cui sentirci tutti a casa. Nessuno di noi si sente a casa, né noi, né loro. Non viviamo nemmeno in case, ma in fortezze. Questa è la sensazione. E ora vediamo che anche le fortezze non ci proteggono davvero. Sabato lo abbiamo visto chiaramente».
Israele cercava uno storico accordo con l’Arabia Saudita. Ora quell’accordo si è allontanato, una volta ancora. Quanto era importante arrivarci? E soprattutto, è possibile arrivarci senza una vera relazione con la Palestina?
«L’accordo con l’Arabia Saudita avrebbe dovuto consolidare gli accordi di normalizzazione tra Israele e Marocco, Israele e gli Emirati Arabi. Accordi molto importanti e utili, certo, che producono però una pace tra ricchi. Sono tentativi per scavalcare il cuore del conflitto. Tali accordi non possono essere raggiunti se non si risolve e se non si rispetta la pace tra poveri. I palestinesi praticamente non sono presenti negli Accordi di Abramo. Ma se vogliamo davvero risolvere il problema, se non vogliamo più ritrovarci nell’incubo che stiamo vivendo oggi, e che viviamo ogni due o tre anni, allora dobbiamo risolvere il problema dello Stato palestinese. Dobbiamo iniziare a creare uno Stato economico più forte per i palestinesi. Non sto parlando dello Stato binazionale, un’idea terribile: israeliani e palestinesi non sono politicamente maturi per una soluzione così sofisticata, due popoli in un solo Paese. Parliamo di popoli che non sono in grado di essere cugini l’uno dell’altro e noi vogliamo che diventino gemelli siamesi?».
E allora quale può essere la soluzione?
«Quella dei due Stati, uno accanto all’altro, con tutta la sicurezza necessaria alla Palestina, a Israele. Se vogliono in mezzo un muro, e sia. Io vorrei il confine senza muri. Ma se molti ne hanno bisogno, d’accordo».
In un suo recente contributo si chiede: «Chi saremo, che persone saremo dopo questi giorni, dopo aver visto quello che abbiamo visto?». Ancora non sappiamo che cosa ne sarà di questa nuova guerra, ma che cosa si immagina nel futuro di Israele?
«Chi lo sa? Ma le cose cambieranno. Un trauma del genere cambierà la mente delle persone, la loro identità. Le persone qui si sentiranno più israeliane, più ebree di prima. Sarà una parte ancor più forte della loro identità. Ci sarà un nuovo atteggiamento verso il potere, verso la nostra potenza militare. Potrebbero emergere problemi psicologici in molti, sia in Israele sia in Palestina. Ciò che la gente ha passato, in questi giorni, è indescrivibile e avrà un effetto traumatico. E poi c’è un altro aspetto importante. Penso che gli israeliani riconosceranno la profondità dell’odio verso Israele, l’odio che ha portato Hamas a compiere quei crimini. Lo capiremo in un modo che prima potevamo soltanto intuire, immaginare, mentre ora sarà una volta per tutte concreto. Siamo un Paese che, se vuole sopravvivere, deve stare sempre all’erta, giorno e notte, per anni e anni, nello sforzo di essere al contempo Atene e Sparta. E dovremo pagare un prezzo estenuante, se vogliamo avere qui una vita libera, democratica, laica, o perlomeno rispettosa di ogni credo e di ogni religione, se vogliamo un Paese che dialoghi con i suoi vicini e con il mondo intero, un Paese che non sia razzista. Solo allora la vita sarà vita, una vita che è casa».
Un giorno di tanti anni fa, intervistato da Gad Lerner, disse che era la fame di pace a permetterle di andare avanti, pur ammettendo che non l’aveva mai vissuta. Ci sarà mai la pace? Ma poi che cos’è la pace per un israeliano?
«No, in effetti non l’ho mai vissuta, mai sperimentata veramente. Abbiamo una pace con l’Egitto, ma è molto fredda. Abbiamo parlato degli Accordi di Abramo. Ma quando penso alla pace, e voi ne sapete più di me, perché siete nati in essa, be’, è qualcosa che davvero desidero. Desidero solo la pace. Vivere in un Paese come quello che ho appena descritto. Vorrei che Israele fosse così. Solo allora saprei cos’è la pace. Io vi invidio, perché voi lo sapete che cos’è. E forse non ci fate neppure caso, al fatto di vivere nella pace. Ma io so cosa mi manca. So qual è il prezzo che si paga per vivere tutta la vita in un clima di guerra e come ciò ti stritoli la mente e il cuore, la vita. Sì, ho fame di pace, ho sete di pace. Mi rendo conto di aver parlato di un sogno di pace che svanisce, ma non posso permettermi il lusso di disperare».
Con la sua opera ha sempre dimostrato di avere a cuore l’infanzia. Che cosa ne è e ne sarà dei bambini israeliani e dei bambini palestinesi? È possibile trasferire a loro questo sogno di pace?
«È ciò che cerchiamo di fare. E mi fa molto piacere che mio figlio e mia figlia abbiano letto il mio articolo recentemente pubblicato dal “Financial Times” (e in Italia da “Repubblica”, ndr) e ne siano stati molto orgogliosi. Ho pensato a quanto sia importante che i giovani vogliano ancora accettare un’idea di pace, nonostante tutto ciò di cui sono testimoni, di una nuova vita, una vita diversa da quella che abbiamo ora».