«Disturbiamo la gente? È necessario, la crisi climatica è già una catastrofe»
Ragazzi e ragazze con uno striscione. Si fiondano in mezzo alla strada: è il Grande Raccordo Anulare di Roma. Prima di bloccare il traffico, un veicolo sfiora i manifestanti a tutta velocità. Poi un altro. E un altro ancora. Immagini da brividi, che hanno fatto il giro del web. Proprio come i momenti di tensione nei pressi del Colosseo, con le persone sedute sulla carreggiata spostate di peso da automobilisti inferociti: «Ti porterei a zappare la vigna», urla qualcuno. Spesso solo l'intervento della polizia evita il peggio. E non solo blocchi del traffico: i lanci di zuppe varie sui dipinti più famosi d'Europa sono un'altra declinazione, decisamente meno rischiosa, di quella che gli attivisti chiamano «disobbedienza civile». Protagonisti di queste azioni eclatanti sono, fra i vari gruppi in tutto il mondo, i membri di Ultima Generazione, una – leggiamo sul sito – «campagna italiana di disobbedienza civile nonviolenta che dal 2021 unisce semplici cittadine e cittadini preoccupati per il proprio futuro e per quello di chi verrà dopo di noi». Cosa chiedono al Governo? La gente recepisce il loro allarme climatico? E soprattutto, sono consapevoli di rischiare le proprie vite in mezzo al rombo dei motori delle auto e alla rabbia della gente? Ne parliamo con Davide, attivista di Ultima Generazione.
Davide,
partiamo dall'inizio: cosa chiedete al Governo italiano?
«Chiediamo di interrompere immediatamente la riapertura delle centrali a carbone dismesse e di cancellare
il progetto di nuove trivellazioni per la ricerca di gas naturale. Inoltre
chiediamo un incremento immediato di energia solare ed eolica di almeno 20
GigaWatt».
Credete che queste azioni di disobbedienza civile siano davvero in grado di accendere i riflettori sulla crisi climatica in atto?
«Assolutamente
sì. Negli ultimi mesi abbiamo ricevuto un’attenzione mediatica enorme. Con queste azioni eclatanti vogliamo parlare alla gente dei problemi climatici e vogliamo far capire che è necessario affrontarli immediatamente,
perché non abbiamo più tempo. È estremamente urgente che si prendano delle
decisioni per affrontare la crisi climatica e quella energetica, altrimenti sarà troppo tardi. La
disobbedienza civile non violenta è il modo più efficace che abbiamo, come comuni cittadini, di portare le nostre richieste al Governo. Siamo non
violenti, però questo non significa che siamo passivi. Non reagiamo con violenza
alle provocazioni altrui, mettiamo in pratica delle proteste che sono molto
forti e disturbanti per qualcuno, ma crediamo possano funzionare. Siamo poche
persone, ma questo non ci impedisce di avere un’eco mediatica».
Avete attirato molta attenzione, ma siete stati anche parecchio criticati: per i vostri detrattori, bloccare il traffico o lanciare cibo sui dipinti sono azioni inutili e odiose. Come rispondete a chi vi dice di «andare a zappare»?
«Siamo
consapevoli che con queste azioni interrompiamo la quotidianità delle persone o creiamo disagi a
qualcuno, ma è necessario per portare alla luce un problema che riguarda tutti. Perché è di questo che parliamo: tutti quanti, non solo qualcuno, subiranno l’effetto della crisi climatica e delle decisioni che non
vengono prese dai Governi per salvaguardare il nostro futuro. È necessario disturbare, per
un bene più grande. Inoltre, le opere d’arte che prendiamo
di mira non vengono rovinate, le usiamo come cassa di risonanza. Il sentimento
di indignazione delle persone davanti alle nostre azioni, lo usiamo per parlare di un problema più grande».
Ma così non
non rischiate di attirare antipatie piuttosto che supporto? Non sarebbe meglio trovare un modo di coinvolgere la gente piuttosto che farla imbestialire?
«Sappiamo
che alcune persone potrebbero detestarci. La nostra speranza è che tramite la non violenza, la compassione
che portiamo in azione e la sincerità con cui parliamo possiamo sfondare questo
muro di odio. Speriamo che la gente vada oltre al semplice giudizio che si
dà a prima vista. Comunque, siamo disposti a subire violenze verbali o fisiche e a sopportare la rabbia della società nei nostri confronti. Questo fa parte del processo di cambiamento di cui abbiamo
bisogno. Non è facile vestire questo ruolo, ma ce ne facciamo carico. Come accettiamo le
conseguenze legali».
Quali sono le conseguenze legali? Cosa succede quando arriva la polizia?
«Avviene un
fermo identificativo: ci prendono le impronte
digitali, veniamo schedati e denunciati. Ci danno anche sanzioni
amministrative. In genere stiamo in questura 5 o 6 ore, poi veniamo rilasciati. A volte ci danno misure precauzionali, come un foglio di via da una città. Finora sono state arrestate tre persone, per un’azione ad aprile nei confronti ENI, ma non hanno ancora affrontato un vero e proprio
processo».
Al di là
dei problemi legali, detto brutalmente: quando vi lanciate in mezzo al traffico, tra auto in corsa e gente che cerca di linciarvi, rischiate la vita. Ne siete consapevoli?
«Ne siamo
consapevoli. Facciamo il possibile per mantenere bassa la tensione, cerchiamo di non provocare e mantenere un atteggiamento umile. Inoltre ci tuteliamo con dei video. Però siamo arrivati a un punto in cui siamo terrorizzati per il nostro futuro: se non facciamo qualcosa adesso, le nostre vite sono comunque in pericolo. Vale la pena
rischiare. In tutti i grandi cambiamenti del passato, penso soprattutto ai movimenti per i diritti civili, centinaia di persone sono morte e noi dobbiamo molti dei nostri
diritti alle loro lotte. Se non siamo disposti a rischiare per la catastrofe più grande
che l’essere umano abbia mai affrontato, per cosa dobbiamo farlo? Milioni di persone
già oggi sono costrette a migrare perché è diventato impossibile vivere nel
proprio territorio. E sarà sempre peggio. L’Italia non è tra i Paesi messi
meglio: è a rischio siccità, desertificazione e rischiamo impatti molto forti
per quanta riguarda gli eventi climatici estremi. Le persone stanno già morendo per la crisi climatica, non è un
gioco».
Avete rapporti
con i movimenti di altri Paesi, ad esempio con Renovate Switzerland? Siete riusciti a creare una rete internazionale?
«Sì,
abbiamo rapporti con gli altri: questo ci dà forza e speranza. Da aprile di quest’anno
siamo in una rete internazionale di campagne come la nostra, che
abbracciano la strategia della disobbedienza civile non violenta
per chiedere ai Governi di ridurre il
consumo di combustibili fossili. Renovate Switzerland, ma anche Dernière
Rénovation in Francia, Letzten
Generation In Germania, Just Stop Oil nel Regno Unito, e tante altre. Anche negli USA e in Australia stanno nascendo nuovi movimenti. Questo ci dà ulteriore speranza, perché se non agiamo collettivamente non ha senso».
Perché non siete andati a protestare alla conferenza per il clima di Sharm
el-Sheikh? Cosa pensate della COP27?
«Crediamo che andare a protestare a questo tipo di eventi non porti ad alcun risultato. Noi
facciamo la nostra parte, ma nei nostri Paesi. Quest’anno non è andata neppure Greta Thunberg, perché in quelle sedi è già stato detto abbastanza. È la 27.esima COP, lo dice già il numero: un fallimento dietro l'altro. Ed è assurdo, se pensiamo che questa edizione è iniziata con un rapporto scientifico dell’ONU che dice chiaramente che non abbiamo alcuna speranza di rimanere in quei 1,5 gradi di
temperatura promessi con l'Accordo di Parigi. Siamo già dentro a una catastrofe e ora non ci resta che
evitare il peggio. Noi, come Occidente, abbiamo molte più responsabilità degli
altri: è nostro dovere fare qualcosa».
Hai citato Greta Thunberg: cosa ne pensi di lei? Gli scioperi per il clima non sono più sufficienti?
«Riconosciamo a Greta un ruolo di leader. È stata lei ad accendere il movimento per il clima nel mondo. Gli scioperi scolastici sono stati un metodo di protesta molto efficace, ma non sono abbastanza. Adesso è il momento di riunire tutti i vari movimenti
per il clima di ogni Paese per portare richieste concrete, anche con azioni eclatanti. Dobbiamo alzare
il livello di conflitto. Un conflitto non violento che vada oltre gli scioperi. Lo stesso movimento dei Fridays for future sta reagendo dopo le nostre manifestazioni e sta portando anch’esso azioni più radicali. I dati parlano chiaro: scioperi, marce e petizioni non bastano più».