E se a esplodere fosse il mio smartphone?
La domanda, dopo quanto successo in Libano e in Siria fra martedì e mercoledì, è sulla bocca di molti: se qualcuno, da remoto, può far esplodere oggetti come semplici cercapersone e walkie-talkie, che cosa potrebbe succedere – ad esempio – al mio smartphone? Al di là delle considerazioni politico-militari, e della risposta di Hezbollah alle azioni di Israele, la questione di suo è interessante. David Ignatius del Washington Post, in un suo articolo, ha scritto che questi attacchi rappresentano l'inizio di una nuova, pericolosissima era a livello di cyberguerra. «Qualsiasi dispositivo connesso a Internet può potenzialmente trasformarsi in un'arma». Davvero? Aiuto.
In realtà, come spiega Vox, è necessaria un po' di prospettiva. O, meglio, di contestualizzazione. I dispositivi esplosi in queste ore, è bene ribadirlo, non erano armi. Lo sono diventate, secondo l'ipotesi più concreta, sostenuta fra le altre da fonti di intelligence statunitensi, dopo un intervento esterno. Ovvero, inserendo delle piccole quantità di esplosivo. È vero, come è stato detto e ribadito più volte, che è possibile usare un malware per manomettere a distanza o, addirittura, far esplodere la batteria di uno smartphone, tuttavia i danni causati dalle esplosioni in Libano e in Siria sono, concedeteci l'espressione, vecchio stampo. Detto in altri termini, l'operazione attribuita a Israele non si è discostata molto, a livello tecnologico, dalle operazioni condotte tanti, tantissimi anni fa. Come quella che, nel 1996, portò all'eliminazione di Yahya Ayyash, ingegnere di Hamas ucciso grazie a una carica esplosiva inserita nel suo cellulare.
Le preoccupazioni circa i nostri smartphone, di riflesso, sembrerebbero esagerate. Proprio perché Israele ha agito su un piano tecnologicamente inferiore. Axios, al riguardo, ha sottolineato come difficilmente uno scenario simile possa concretizzarsi in Occidente. «È improbabile che il Pentagono acquisti migliaia di cercapersone carichi di C-4 per i vertici dell'esercito». Vero. Resta, sullo sfondo, una questione di diritto internazionale. Il numero di ordigni esplosi e il fatto che anche dei civili, fra cui bambini, siano rimasti feriti e uccisi non solo fa ripensare ai termini genericamente utilizzati per queste operazioni, «mirato» o «chirurgico», ma anche al rispetto degli standard legali internazionali. Per tacere del fatto che altri attori, un domani, potrebbero tentare di replicare una mossa simile. L'esempio, in questo senso, è dato dagli attacchi con droni: un tempo appannaggio degli Stati Uniti, come ha sottolineato Colin Clarke, direttore della ricerca del think tank Soufan Group, oggi sono ampiamente utilizzati tanto dagli eserciti regolari quanto da attori non statali. Lo stesso Clarke ha detto che conflitti come quello in corso in Medio Oriente, spesso, sono «laboratori di innovazione per tutte le parti». E ancora: «Vedremo i gruppi militanti sviluppare nuovi trucchi e cercare di sfruttare le tecnologie emergenti in modi nuovi».
Modi che potrebbero, in futuro, almeno teoricamente coinvolgere anche i dispositivi più moderni. Per quanto un'azione come quella portata avanti fra martedì e mercoledì appare difficilmente replicabile con apparecchi tecnologicamente evoluti. «Ma quanto successo potrebbe dare nuovi impulsi ai cattivi» ha tagliato corto Clarke.