E se il regime di Bashar al-Assad cadesse? «Russia e Iran hanno tanto da perdere»
Otto anni dopo i bombardamenti russi di Aleppo, i tizzoni della guerra civile siriana sono tornati ad accendersi e, anzi, ad ardere con forza, minacciando il regime di Bashar al-Assad. Nel fine settimana, infatti, gruppi di ribelli hanno conquistato l’antica città situata nel Nord-Ovest della Siria, dal 2016 stabilmente nelle mani delle forze governative. Sostenuto da Russia e Iran, l’esercito di Assad è stato costretto a una ritirata e con il passare delle ore il conflitto si è esteso toccando villaggi e città nelle vicinanze, fino a toccare la provincia di Hama. Al momento in cui scriviamo sono oltre 400, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, le vittime dall’inizio dell’avanzata ribelle, 61 delle quali civili. Ma quali elementi hanno propiziato la fulminea avanzata degli insorti? E che cosa significherebbe, per la regione, una caduta di Assad? Ne abbiamo parlato con Andrea Beccaro, professore in Relazioni internazionali e Studi strategici all’Università di Torino.
L’influenza russo-iraniana
Anni e anni di calma. E poi, improvvisamente, la deflagrazione. Perché ora? «Sia il conflitto in Ucraina sia quello in Libano hanno giocato un ruolo importante» nel riaccendersi della guerra civile, ci spiega Beccaro. «La Russia è tutt’oggi coinvolta militarmente con elementi della propria aviazione, ma è ovvio che la questione ucraina abbia distolto l’attenzione di Mosca dalla Siria, che fino a pochi anni fa era il teatro principale» dei conflitti globali. «Gli attacchi israeliani in Libano, intanto, hanno indebolito Hezbollah, il quale – una decina d’anni fa, durante la guerra – aveva funto da vero e proprio salvagente per Assad, prima ancora dell’intervento russo». Parte delle risorse schierate dal gruppo in Siria, afferma l’esperto, «sono state probabilmente spostate in Libano. E similmente ha dovuto fare l’Iran, del quale Hezbollah è una propaggine». Un cambio di priorità che avrebbe lasciato scoperto il regime di Assad. «Da considerare, poi, che da mesi Israele bombarda con una certa frequenza obiettivi nella stessa Siria: una serie di attacchi che aveva come obiettivo principale l’indebolimento della linea di supporto logistico di Hezbollah per il Libano, ma che ha avuto come conseguenza l’assottigliamento della presenza di Hezbollah in Siria». Da non sottovalutare, poi, l’elemento sorpresa. «Benché negli ultimi mesi siano state registrate maggiori attività dei gruppi siriani irregolari, nessuno si aspettava un’operazione del genere, e a così ampio raggio».
Ma chi sono questi ribelli? Secondo quanto riportato dai media internazionali, a guidare l’offensiva è il gruppo Hay’at Tahrir al-Sham. In breve, HTS. «Questa sigla raccoglie gruppi dalle varie ideologie, ma le sue radici affondano chiaramente nell’estremismo salafita. Nato come costola di al-Qaeda in Siria, dopo l’intervento russo del 2016 HTS ha capito di non avere forze sufficienti per combattere il regime. Una soluzione adottata è stata quella di abbandonare l’estremismo più marcato, così da attirare gruppi moderati e rinforzare le proprie linee». Ma attenzione: pur essendo meno legato ad al-Qaeda, evidenzia Beccaro, «HTS non ha nulla a che vedere con un gruppo democratico».
La situazione, certo, non preoccupa solo Assad, ma anche Mosca e Teheran, che nella regione hanno i propri interessi. «La Siria è fondamentale per la Russia: ospita le sue basi aeree in Medio Oriente, garantisce uno sbocco sul Mediterraneo e rappresenta un ponte logistico essenziale per il coinvolgimento russo in Libia e in tutta l’Africa». Un’eventuale caduta di Assad, insomma, «per il Cremlino rappresenterebbe un problema assolutamente concreto. Senza considerare lo smacco dal punto di vista del prestigio internazionale». Una pressione evidente nella fretta con cui Mosca avrebbe licenziato, secondo blogger di guerra russi citati dal Guardian, il generale a capo delle forze russe in Siria, Sergei Kisel. Voci confermate vedono nel colonnello generale Alexander Chaiko il suo successore.
Non molto dissimile il discorso per l’Iran. «Perdere la Siria comporterebbe un taglio nella linea che collega l’Iran al Libano, passando attraverso l’Iraq: un grosso problema per il rifornimento di Hezbollah e per la capacità di Teheran, quindi, di proiettare la propria ombra nella regione». Ma il discorso va ampliato. Nella primavera del 2023, ricorda Beccaro, «la Siria era stata riammessa alla Lega araba: un’operazione che rappresentava un segnale delle capacità diplomatiche della Russia e di distensione fra Arabia Saudita e Iran». Una serie di elementi che, con la fine del regime, verrebbe a cadere, «con conseguenze più ampie a livello regionale».
Beccaro, in ogni caso, invita alla prudenza nel dare Assad per spacciato. Il presidente siriano, del resto, ha lanciato un messaggio chiaro: «Il terrorismo capisce solo la forza, ed è questo il linguaggio con il quale lo schiacceremo ed elimineremo». Dopo l’incontro di sabato con Putin, avvenuto a Mosca, il leader di Damasco è rientrato ieri in Siria per un colloquio con il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi. Il regime, insomma, si sta preparando a vendere cara la pelle.
Rivalità passate e presenti
Numerosissime le fazioni che vorrebbero vedere la fine di Assad, ma non tutte hanno gli stessi obiettivi. E diversi sono anche i sostenitori esterni. La Turchia, ad esempio, nella prima fase della guerra civile si era adoperata per sponsorizzare alcune milizie ribelli. Milizie, allora, vicine al gruppo HTS. «Inizialmente Ankara aveva, nella sua agenda politica, l’obiettivo di rovesciare Assad, ma negli anni aveva finito per accettare una convivenza tra regime e insorti». Ora, spiega Beccaro, «non si può dire se la Turchia stia supportando direttamente HTS, ma è indubbio che abbia interessi politici nella regione».
Quando, in un’area così piccola, si scontrano gli interessi di superpotenze e potenze regionali come Russia e Turchia, una scintilla potrebbe portare al disastro. Non a caso, sabato, i rispettivi ministri degli Esteri, Sergey Lavrov e Hakan Fidan hanno avuto una conversazione telefonica per discutere dei «pericolosi sviluppi della situazione» in Siria. Un conflitto diretto fra i due Paesi, tuttavia, «rimane al momento improbabile», valuta Beccaro.
Certo è che la situazione, già estremamente intricata, è ancor più complicata da conflitti religiosi. «La differenza fra sunniti e sciiti sta giocando, in questi ultimi decenni, un ruolo importante in Medio Oriente». In un Paese a maggioranza sunnita come la Siria, è l’Iran, «massima potenza sciita, a sostenere il regime di Assad, a sua volta sciita. La situazione crea critiche, obiezioni e, di conseguenza, violenze. Un fattore, dunque, da prendere in considerazione per capire le tensioni locali».
Caos
E se la situazione dovesse ulteriormente degenerare? Chi ne gioverebbe? «Se a sostituire Assad dovessero essere ribelli così vicini a posizioni estremiste e anti-occidentali, nessuno», risponde Beccaro. «Lo stesso Israele, pur nel contesto di rapporti diplomatici estremamente difficili, non era in una situazione di conflitto aperto con Assad: c’era una sorta di convivenza, di reciproca sopportazione». Se questo dovesse cadere, Tel Aviv si troverebbe ai confini milizie jihadiste. «Gli Stati Uniti, poi, in questo momento hanno altre problematiche da affrontare. Le truppe presenti nel Nord non rappresentano certo una presenza militare sufficiente a controllare il Paese, per cui Washington si troverebbe immischiata in una situazione estremamente caotica». Ogni piccolo gruppo impegnato nella lotta contro Assad «ha i propri personaggi di riferimento, ma non è scontato abbiano la capacità di gestire l’intero Paese». L’orizzonte, soprattutto per la popolazione civile, appare insomma più fosco che mai.