E se la guerra in Ucraina, adesso, finisse in un cono d'ombra?
E l’Ucraina? Bella domanda. Dopo l’attacco terroristico di Hamas, sabato, e la risposta di Israele, con la «guerra totale» dichiarata al gruppo militante palestinese e i bombardamenti a tappeto su Gaza, il Medio Oriente dall’oggi al domani si è preso la scena. A scapito, appunto, dell’altro fronte caldo. Quello ucraino.
Alcuni analisti, invero, hanno già avanzato un’ipotesi. Ovvero, che Kiev finisca in un cono d’ombra e venga abbandonata. Anche in termini di forniture militari. La questione, al di là degli scenari, è concreta. Molto concreta. Soprattutto se le operazioni israeliane dovessero durare a lungo e, quindi, spingere lo Stato Ebraico ad alzare la mano per chiedere, a sua volta, armi all’Occidente, Stati Uniti in testa.
Per capirne di più, abbiamo contattato Mauro Gilli, ricercatore associato al Politecnico di Zurigo ed esperto di tecnologia militare e politica internazionale. «È un discorso molto pertinente in effetti», afferma il nostro interlocutore. «Si parla tanto di guerra, strategia e via discorrendo. Ma poi, alla fine, l’aspetto centrale è rappresentato dai mezzi e dagli uomini a disposizione».
Dottor Gilli, concretamente: che cosa significa, per
una superpotenza come quella americana decisa a difendere il proprio status
anche attraverso aiuti militari, dover giostrare fra due fronti aperti?
«Se ci sono più fronti aperti, beh, significa che le risorse non sono
infinite. Tendiamo spesso a pensare che le armi, semplicemente, si producano e
basta. In verità, l’industria della difesa ha esigenze specifiche e tempi
lunghi. Soprattutto, non tutti possono maneggiare armi. Servono competenze
particolari. E non parliamo di un’industria che, dietro un pagamento, fornisce
all’istante prodotti finiti ad alta qualità. Serve tempo, proprio così. Non a
caso, un po’ tutti i Paesi legati al conflitto in Ucraina stanno avendo
problemi con le rispettive scorte».
Negli Stati Uniti, quantomeno, il sostegno a Israele
sembra incontrare meno resistenze interne rispetto alle discussioni attorno
all’aiuto all’Ucraina. Ma c’è già chi sta guardando oltre, giusto?
«La domanda sollevata ora con questo doppio conflitto, in effetti, è
stata posta già mesi fa. E questo in relazione a Taiwan e all’eventualità che,
pure lì, si apra un fronte con l’invasione della Cina. Molti conservatori, ad
esempio, ritengono che l’America debba continuare a esercitare il proprio ruolo
nel mondo. E che la partita vera, in questo secolo, si giocherà proprio in Asia.
Di qui alcune conclusioni: se ci impegniamo troppo nella difesa di Kiev, poi
avremo problemi a rifornire di armi Taiwan».
Rimaniamo al presente: quanto è reale il rischio che i
bisogni di Israele si sovrappongano a quelli dell’Ucraina? E che, quindi, si
creino dei colli di bottiglia nella fornitura di armi?
«Se penso ai mezzi di terra, mi dico che
Israele non dovrebbe averne bisogno in quanto ha una produzione domestica. Lo stesso dicasi per i
proiettili di artiglieria: che io sappia, l’esercito non ne ha bisogno. Proprio
perché Israele non prevede un uso massiccio dell’artiglieria, non come
l’Ucraina. Per alcune categorie di armi e munizioni, insomma, i due Paesi
possono correre in parallelo. Come due rette».
E dove, invece, potrebbe esserci sovrapposizione?
«A livello di sistemi di difesa antiaerea. E di missili terra-aria. In questo
settore, le necessità dell’uno potrebbero interferire con le necessità dell’altro».
Storicamente, siamo abituati a operazioni lampo da
parte di Israele. La guerra dei
sei giorni insegna… L’impressione, però, è che stavolta le cose
potrebbero andare per le lunghe. Un altro aspetto che giocherebbe contro Kiev.
«Sì, è vero. Non sembra siamo di fronte a una guerra lampo. Ma di
qualcosa che durerà più a lungo. L’altro aspetto da considerare è che Israele
non sta combattendo una guerra convenzionale. Stiamo parlando di una sorta di
controguerriglia urbana. Che assomiglia a ciò che abbiamo visto in Afghanistan
o in Iraq».
Senza entrare in questioni prettamente politiche, da
ignoranti siamo sempre stati convinti della qualità dell’esercito israeliano.
Definito da più parti fra i migliori al mondo, se non il migliore. Davvero una
forza del genere un giorno potrebbe avere bisogno degli aiuti occidentali?
«È un’altra domanda interessante. Ma non bisogna dimenticare che, un po’
come la Svizzera, Israele è un Paese piccolo. Ha capacità tecnologiche,
aerospaziali e militari sviluppatissime. Tuttavia, non può arrivare a tutto per
conto proprio. Lo stesso Iron Dome, il sistema sviluppato dalla RAFAEL in grado
di intercettare razzi a media velocità e proiettili di artiglieria con
traiettoria balistica, è stato co-prodotto con l’aiuto degli Stati Uniti. La
domanda, ancora, è pertinente se pensiamo appunto al munizionamento. Rischieremmo
però di entrare in considerazioni più politiche che tecniche».
Dall’altra parte, c’è questo continuo vociare attorno
al ruolo dell’Iran dietro a Hamas. E poi c’è la Russia, che potrebbe
beneficiare della situazione venutasi a creare in Medio Oriente. Come la
mettiamo?
«È difficile rispondere, nel senso che abbiamo informazioni frammentarie
e per certi versi discordanti. In questi giorni, anche prima dell’attacco di
Hamas, si è parlato molto di Iran. Alcuni articoli, fra cui uno del Wall Street
Journal, hanno puntato il dito contro Teheran dopo quanto successo. Tirando in
ballo anche Mosca. Detto questo, anche se l’operazione di Hamas non fosse stata
coordinata con partner esterni, mi pare evidente che l’Iran un qualche aiuto
l’abbia dato. Quantomeno a livello di supporto, mezzi e finanziamenti. La
domanda, ora, è se ci sia stato anche un coinvolgimento più attivo. Quanto alla
Russia, sicuramente questa situazione non dispiace al Cremlino. Non so, però,
quanto la cosa possa impattare sulle operazioni russe in Ucraina. È vero, le
vicende mediorientali distoglieranno l’attenzione dalla guerra condotta da
Putin. Abbiamo registrato un tentativo di disinformazione, per cui le armi
usate da Hamas sarebbero state rivendute dall’Ucraina. Un tentativo come un
altro di influenzare l’opinione pubblica occidentale».
L’ultimo aspetto riguarda i droni. Comparsi anche in
questo scenario di guerra. Si può dire che hanno permesso a Hamas di livellare
in parte il confronto?
«Con il termine drone, oggi, ci riferiamo a un’ampia gamma di mezzi. Con
il rischio di non avere più la giusta percezione delle cose. Nel caso di Hamas
parliamo di droni simili ai droni giocattolo, in grado però di sganciare una
granata. Sabato, sono stati adoperati per disabilitare i sistemi di
comunicazione e i sensori israeliani. Operazioni, queste, che hanno poi
favorito le incursioni via terra dei miliziani di Hamas. Non c’è stato, dunque,
il grado di sofisticazione visto in Ucraina. Eppure, parliamo di un passo
avanti rispetto ai cosiddetti IED, o ordigni esplosivi improvvisati, utilizzati
in Afghanistan e Iraq. Strumenti rudimentali costruiti sfruttando, ad esempio,
dei razzi inesplosi e poi usati per far saltare in aria carri armati o mezzi
corazzati. I droni, oggi, hanno il grande vantaggio di poter essere guidati
verso l’obiettivo. Detto ciò, il grosso delle operazioni, fronte Hamas, è stato
condotto via terra. Con uomini. Se è vero che sono stati trovati i corpi di
1.500 combattenti nelle zone delle incursioni, allora stiamo parlando di un’operazione
di terrorismo su vastissima scala».