Ecco che cosa succede quando la Cina conquista un mercato automobilistico

La Thailandia deve molto, moltissimo al Giappone. Quantomeno, a livello di automobili. Furono aziende nipponiche, nel secondo Dopoguerra, a «creare» una vera e propria industria nel Paese. Investendo, in particolare, nelle catene di approvvigionamento. Non solo, alla fine degli anni Settanta, come scrive il New York Times, i marchi del Sol Levante detenevano circa il 90% del mercato thailandese. Negli anni Novanta, le case automobilistiche statunitensi e sudcoreane avevano cercato di rosicchiare quote ai marchi nipponici. Senza, tuttavia, riuscirvi. E questo perché i clienti ritenevano le auto giapponesi le più sicure e affidabili al mondo.
Quella che, fino a ieri l’altro, era considerata una roccaforte giapponese, ora, sta lentamente ma inesorabilmente cedendo di fronte alla promessa dei costruttori cinesi, fra cui BYD, Great Wall Motor e SAIC Motor. Ovvero, la promessa di veicoli elettrici a prezzi accessibili.
Il Giappone, incassati non pochi colpi negli ultimi due anni, sta disperatamente cercando di correre ai ripari. Lo scorso dicembre, ha pure preso un diretto dal primo ministro thailandese, Srettha Thavisin, il cui messaggio è stato: o vi sbrigate e iniziate a investire, davvero, nei veicoli elettrici o perderete terreno nei confronti della Cina. «Non siete i soli al mondo» ha ammonito Thavisin ai media nipponici.
Le auto elettriche stanno acquisendo sempre più popolarità in Thailandia. Di riflesso, la riluttanza dei marchi nipponici ad abbracciare, in toto, la transizione elettrica ha frenato, e pure parecchio, le vendite di Mazda, Mitsubishi, Nissan, Sukuki e Isuzu nel mercato thailandese. Proprio perché questi marchi hanno un’offerta limitata di auto ibride o completamente elettriche. Il New York Times, al riguardo, riferisce che nel 2023 le vendite di modelli nuovi, in Thailandia, per questi marchi sono calate complessivamente del 25%. Una botta. Le vendite complessive, invece, sono calate del 9%. Tanto, in ogni caso.
Proprio questo mese, sono cadute le prime decisioni «forti». Honda, ad esempio, dal 2025 cesserà la produzione di veicoli in uno dei suoi due stabilimenti thailandesi. A giugno, un annuncio simile è stato fatto da Suzuki riguardo al suo unico impianto produttivo nel Paese.
Oggi, i produttori giapponesi rappresentano circa il 75% delle vendite di veicoli in Thailandia. Il Paese del Sol Levante, dicevamo, sta disperatamente cercando di correre ai ripari. Durante la visita di Thavisin in Giappone, per dire, Toyota, Honda, Isuzu e Mitsubishi hanno annunciato investimenti per 4,3 miliardi di dollari su un arco di 5 anni per convertire le loro fabbriche thailandesi. Convertirle, evidentemente, alla produzione di veicoli elettrici.
La storia d’amore fra Giappone e Thailandia, a livello di automobili, è ricca di date chiave. Nissan aprì il primo stabilimento di assemblaggio, a Bangkok, nel 1962, quando i thailandesi compravano poche migliaia di veicoli all’anno. Toyota avviò la produzione in loco nel 1964. Una storia d’amore e, verrebbe da dire, di opportunità: la Thailandia come hub regionale da cui esportare verso il Sudest asiatico. Di qui gli investimenti, pesanti, nel corso degli ultimi decenni per sviluppare catene di fornitura e reti di vendita. I frutti, copiosi, sembrano tuttavia ancorati al passato, o se preferite agli anni Ottanta e Novanta. Quando le case automobilistiche giapponesi seppero cogliere la crescente domanda di tutto il Sudest asiatico.
Il problema, leggiamo, è che la concorrenza da due anni a questa parte è agguerrita. Ed è in vantaggio, sul fronte dell’elettrico. GAC Aion, divisione del gruppo statale Guangzhou Automobile, ha avviato in velocità un’attività di produzione e vendita in Thailandia e sta cercando di conquistare un sottomercato importantissimo per i marchi giapponesi, come scrive sempre il New York Times: i taxi. Come? Lanciando una berlina ad hoc con un partner thailandese, Gold Integrate, al prezzo di 25 mila dollari (con una garanzia di ben nove anni). Toyota, vista l’offensiva, ha tagliato di quasi 3 mila dollari il prezzo del suo modello di taxi. Una rarità, considerando la politica del marchio nipponico. Segno che, forse, il monito del primo ministro thailandese è stato ascoltato.
La Thailandia, concludendo, ha scelto una via differente rispetto a Stati Uniti ed Europa, intesa come Unione Europea. Aprirsi alla Cina e agli investimenti del Dragone nel settore automobilistico laddove Washington e Bruxelles hanno prediletto il sentiero dei dazi per «tenere fuori» Pechino.