Matteo Messina Denaro

Ecco come cambia Cosa Nostra: l'analisi degli storici dopo l'arresto del boss

Salvatore Lupo e Francesco Forgione concordano: «Un fatto importante, ma la battaglia contro la mafia non può fermarsi» – I rapporti con il Ticino e la Svizzera
© EPA/CARABINIERI
Dario Campione
17.01.2023 06:00

«Sono Matteo Messina Denaro». Quattro parole. Lo sguardo fermo, dietro gli occhiali a goccia. E nessuna reazione particolare. La latitanza del boss trapanese, durata 30 anni, è finita ieri mattina, attorno alle 8.15, in una stradina laterale di accesso alla clinica “La Maddalena” di Palermo, struttura sanitaria dove il capomafia siciliano si era recato per un ciclo di chemioterapia. Ormai da qualche giorno i carabinieri dei Reparti Operativi Speciali (ROS) lo avevano individuato. O meglio, avevano capito che dietro il nome di Andrea Bonafede, un 59 enne residente a Campobello di Mazara e nipote di un fedelissimo di Messina Denaro, potesse effettivamente nascondersi l’ultimo componente tuttora libero della cupola che, nel 1991, aveva deciso di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da mesi, hanno confermato ieri pomeriggio in conferenza stampa il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e il comandante dei ROS generale Pasquale Angelosanto, le conversazioni dei familiari del capomafia intercettate dagli investigatori avevano fatto emergere la malattia grave del padrino di Castelvetrano, operato già due volte per un cancro al fegato e per il morbo di Crohn. Dopo aver scandagliato gli elenchi della centrale nazionale del ministero della Salute sui malati oncologici, il cerchio si era stretto enormemente. E quando, pochi giorni fa, dall’incrocio dei dati e dalle attività tradizionali d’indagine è emerso che, nel giorno di uno degli interventi chirurgici, Andrea Bonafede era da un’altra parte, tutto è diventato chiaro. «In questa vicenda, l’aspetto sanitario è stato rilevante - ha ammesso il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido - la malattia ha esposto e costretto Messina Denaro a uscire allo scoperto. Dover fare i conti con la salute è un fatto grazie a Dio democratico».

Domande complesse

L’arresto del padrino di Castelvetrano apre un ventaglio di domande cui non sembra facile rispondere: chi ha protetto per 30 anni la latitanza del boss? Chi era veramente Matteo Messina Denaro? E che cosa succederà, adesso, a Cosa Nostra? «La prima considerazione che ho fatto - dice al CdT Salvatore Lupo, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo e autore di alcuni tra i più importanti libri sulla storia della mafia siciliana - è che siamo davanti a una specie di residuato bellico, l’ultimo dinosauro che camminava tra noi. Un uomo che erroneamente è stato definito in questi anni il boss dei boss o l’erede di Totò Riina. Quella mafia non esiste più, e non c’è continuità, nessun riferimento con la realtà attuale di Cosa Nostra. Con l’arresto di Messina Denaro è stato certamente dato un colpo importante alla mafia, ma soprattutto dal punto di vista simbolico. Lo Stato ha ribadito che non si rimane impuniti per delitti così gravi. Parliamo tuttavia di un’era storica ormai passata». Anche lo «stupore per un arresto giunto dopo 30 anni - dice ancora Lupo - è forse eccessivo. Tutti gli altri boss sono ormai in carcere. Non ho la minima idea di quale fosse il suo ruolo nell’attuale Cosa Nostra, ma sono sicuro che non sia paragonabile a quello di molti anni fa. Messina Denaro era l’ultimo componente dell’establishment mafioso che ha progettato la strategia terroristica, e per questo è importante che sia stato catturato». Un’analisi, quella di Lupo, non troppo diversa da quella di Francesco Forgione, presidente della commissione parlamentare antimafia italiana dal 2006 al 2008, già docente di Storia e sociologia delle organizzazioni criminali all’Università dell’Aquila e curatore, assieme a Enzo Ciconte e Isaia Sales, dei 5 volumi dell’Atlante delle mafie (Rubbettino). «È caduto l’ultimo capo della Cosa Nostra corleonese, che è stata una parentesi nella storia della mafia siciliana - dice Forgione al CdT - Con Riina, per la prima volta i boss avevano scelto la strategia di sfida allo Stato e abbandonato la strada della trattativa che sempre, dall’unità d’Italia in poi, aveva caratterizzato i loro rapporti con i vertici istituzionali». In quella stagione e in seguito, spiega l’ex presidente della commissione antimafia, Messina Denaro «ha rappresentato e guidato un mandamento strategico, Trapani, luogo di poteri occulti e massonici, una provincia in cui la doppiezza dello Stato è sempre stata evidente proprio a ragione della interlocuzione della politica con i padrini». Peraltro, Riina «aveva scelto le banche trapanesi per ripulire i propri soldi e sarebbe interessante se Messina Denaro volesse dire qualcosa in proposito. Ovviamente, non lo farà». Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, anche il capomafia di Castelvetrano aveva comunque «capito come l’inabissamento e la mediazione tra politica, finanza e appalti fosse l’unica via percorribile - dice ancora Forgione - per questo aveva messo le mani sui grandi cantieri dell’eolico, sulla grande distribuzione e sul turismo». Sul futuro assetto della cupola, Forgione non ha certezze: «Cosa Nostra è in difficoltà ma questo non vuol dire che sia finita, che la guerra con la mafia sia arrivata alla fine. Il fatto che Messina Denaro sia stato arrestato è un bene, ma c’è ancora molto da fare». Un concetto, quest’ultimo, ripetuto in modo chiaro dallo stesso procuratore de Lucia ai giornalisti assiepati in conferenza stampa: «La mafia non è sconfitta, sarebbe un errore grave pensare che il nostro lavoro si sia concluso». Il capomafia di Castelvetrano, ha aggiunto il magistrato, «ha senza dubbio goduto di molte protezioni, resiste una fetta di borghesia mafiosa che ha aiutato questa latitanza. E su questo continuiamo a indagare». 

I rapporti con la Svizzera

Nel giorno dell’arresto tornano d’attualità anche i rapporti di Matteo Messina Denaro con la Svizzera. Rapporti solidi, concreti, di cui sono rimaste molto tracce nelle investigazioni giudiziarie e nelle inchieste giornalistiche. Secondo Giacomo Di Girolamo, direttore del portale d’informazioni trapanese tp24.it e autore di una biografia del boss pubblicata nel 2017 dal Saggiatore (L’invisibile), «la frequentazione del Ticino e della Svizzera da parte di Messina Denaro è stata assidua, soprattutto quando da giovane, insieme ad alcuni amici fidati, varcava il confine per comprare armi e depositare denaro, ma anche per trafficare in opere d’arte». Quello che resta del «tesoro del capomafia trapanese, ciò che è riuscito a salvare dai sequestri e dalle confische degli ultimi anni - dice ancora al CdT Di Girolamo - potrebbe effettivamente essere in Svizzera. Tra gli inquirenti c’è particolare attenzione su questo». Ma quando si parla di Ticino in relazione a Matteo Messina Denaro torna irrimediabilmente alla luce pure la storia di Giovanni Domenico Scimonelli, detto Mimmo, condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Trapani il 17 gennaio 2018 (sentenza poi confermata in appello a Palermo e in Cassazione nel 2021). Nato a Locarno nel 1967, dopo aver vissuto 20 anni in Svizzera si era trasferito in Sicilia, a Partanna. Considerato il postino dei pizzini del boss, era stato arrestato una prima volta nell’agosto del 2015, nell’ambito dell’operazione “Ermes” e poi raggiunto in carcere da un’altra ordinanza di custodia cautelare in qualità di ideatore e mandante dell’omicidio di Salvatore Lombardo. Scimonelli, secondo la DDA di Palermo, per anni aveva gestito il denaro della famiglia Messina Denaro depositato in alcune banche di Lugano. Soldi. Moltissimi. Ma anche opere d’arte, come detto. E come racconta, con dovizia di particolari nel suo ultimo libro sul boss (U Siccu. L’ultimo capo dei capi, Rizzoli), l’ex direttore dell’Espresso, Lirio Abbate, il quale si sofferma a lungo sui rapporti tra il capomafia trapanese e Gianfranco Becchina, imprenditore emigrato nel 1976 da Castelvetrano a Basilea, città dove - dopo aver lavorato come impiegato in un albergo - era passato al commercio di opere d’arte e reperti archeologici avviando la ditta Palladion Antike Kunst. «Arrestato per furto, ricettazione ed esportazione clandestina - scrive Abbate - Becchina è tornato libero perché i reati sono caduti in prescrizione. Ma non è da escludere che sia anche grazie a lui e alle sue finanze che Matteo Messina Denaro è riuscito a evitare la cattura per così tanti anni».