«Ecco perché Putin ha abbandonato la narrativa della "denazificazione"»
«Il nostro è stato un atto preventivo, una decisione necessaria e assolutamente giusta». Così oggi, 9 maggio, in occasione del «Giorno della Vittoria», il presidente russo Vladimir Putin ha definito quella che si ostina a chiamare «operazione speciale» in Ucraina. Se molti tra gli analisti si aspettavano, da parte dello zar, l'annuncio ufficiale dell'entrata in guerra, così non è stato. Come interpretare un discorso che, in un'occasione così importante per Mosca, non sembra aver portato grandi novità sull'interpretazione del conflitto da parte del Cremlino? Ne abbiamo parlato con Giorgio Comai, ricercatore senior all’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBC Transeuropa).
Attenzione al cambio di narrativa
Chi attendeva grandi annunci, verso un inasprimento o rilassamento del conflitto, dicevamo, è rimasto deluso. «Avanti così». Questo il succo del discorso di Putin. «È vero, il discorso non ha portato grandi novità sull'approccio a quella che è stata ancora definita "un'operazione speciale". Ma dal punto di vista delle motivazioni di questa guerra, un nuovo concetto è stato introdotto», evidenzia Comai. «Se confrontiamo le parole utilizzate oggi con quelle di inizio invasione, vediamo che a febbraio a dominare era la logica di "denazificazione" dell'Ucraina. Tutto faceva pensare che Putin volesse un cambio al Governo di Kiev». Se la data di oggi, così legata alla Seconda guerra mondiale, poteva essere l'occasione perfetta per insistere su questo punto, «sembra che la difficoltà di interpretazione di questo concetto abbia portato all'abbandono della narrativa», evidenzia l'esperto. «Putin ha preferito puntare su una "scusante" più pragmatica di quelle addotte in passato. Ha argomentato che da parte dell'Ucraina e della NATO si stesse preparando un attacco alla Crimea e al Donbass. Per questo, a suo dire, l'operazione era necessaria, inevitabile».
Insomma, se nella prima fase del conflitto la minaccia agli occhi del Cremlino era in primo luogo identitaria, ora la legittimazione dell'invasione sembra passare da un'altra via: quella della minaccia ai confini. «Una scelta, ripeto, più pragmatica e per certi versi più credibile sia per la popolazione russa sia per parte della comunità internazionale. Se l'idea che tutti gli ucraini fossero nazisti era di difficile interpretazione, quella che un giorno Kiev potesse pensare di riprendersi con la forza la Crimea può sembrare meno balzana».
Insomma, visto che la storia dell'Ucraina piena di nazisti non sembra aver attecchito, Putin ha deciso per un cambio di strategia. Ma perché puntare a un concetto così inverosimile? Par quale motivo, anche nel discorso di oggi, la parola «denazificare» è risuonata sulla Piazza Rossa? «Per capire la narrativa della denazificazione, serve innanzitutto comprendere cosa significa a Mosca il termine "nazista". Tutto parte da un'elaborazione diversa della Seconda guerra mondiale e le sue conseguenze. Questo conflitto globale è ricordato in Russia come la "Grande guerra patriottica", e va solamente dal 1941 al 1945». Insomma, una visione russocentrica della Storia e della vittoria sulla Germania. «Se nel resto dell'Europa si considera la fine della Seconda guerra mondiale come una vittoria sui totalitarismi, così ovviamente non è per la Russia, che ha vissuto gli anni seguenti sotto il giogo di Stalin. L'Olocausto stesso», evidenzia Comai «è quasi assente nella storiografia sovietica e poi in quella russa. Per questo in Russia i nazisti non sono né i totalitaristi, né i sostenitori dell'estrema destra, né chi ha commesso l'Olocausto. Coerentemente con una tradizione storiografica per cui la Seconda guerra mondiale era principalmente una guerra contro l'Unione sovietica, "nazista" per il Cremlino è meglio interpretabile come "anti-russo". In questo consta l'idea di "denazificazione" promossa e promessa da Putin: nell'eliminare dall'Ucraina le forze politiche che si definiscono in contrasto alla Russia. Evidentemente, l'invasione sta ottenendo piuttosto l'effetto contrario».
Due discorsi
Ma Putin non è stato l'unico a proporre discorsi. Lo stesso Zelensky si è voluto rivolgere al proprio Paese e al mondo intero: «Il male è tornato. Ma presto festeggeremo due vittorie». Un discorso più efficace di quello dell'omologo? «L'audience alla quale si sono rivolti i due presidenti è completamente diversa», premette Comai. «Il discorso di Putin è quasi esclusivamente ad uso e consumo interno, mentre Zelensky si è rivolto giustamente in modo esplicito anche a un'audience internazionale». E benché il discorso di Zelensky sembra essere stato pronunciato appositamente per oscurare i festeggiamenti russi, la questione rimane delicata. «Anche per l'Ucraina il Giorno della Vittoria è un momento particolare, importante». L'orgoglio ereditato dall'Unione Sovietica per aver sconfitto la Germania nazista, insomma, sopravvive. «Stravolgere un forte consenso nei confronti della data non è così facile. Lo stesso Zelensky si è dovuto muovere con cautela rivolgendosi al pubblico interno. È difficile sia per un'audience interna sia per una esterna una piena ricezione di alcuni dei messaggi espressi dal presidente ucraino in questi giorni».
E in Russia come si è svolto il discorso? Ha colpito nel segno? «La giornata dal punto di vista dello spettatore russo è andata come doveva andare. La grande differenza rispetto alle celebrazioni degli scorsi anni è che si è parlato poco di Seconda guerra mondiale. Il tema principale è stato quello dell'operazione in Ucraina, benché il nome del Paese non sia mai stato fatto e non si siano utilizzati i simboli dell'invasione, come la diffusissima Z», fa notare l'esperto. «Chi si è occupato della parte coreografica ha voluto insistere sul passato. Tutti i simboli legati all'attuale intervento militare sono stati esclusi. Forse per non toccare qualche sensibilità al riguardo. O forse per non legare troppo un evento così sacro, per il popolo russo, con simboli che potrebbero rimanere a lungo come sparire presto».
Comai si sofferma poi nuovamente sul contenuto del discorso. «Un aspetto che va sottolineato è che ancora una volta Mosca non ha voluto definire ciò che porterebbe alla fine del conflitto». Già. Cosa vuole la Russia per mettere la parola fine alla guerra? Cosa vuole rivendicare, dal punto di vista territoriale, per concludere le operazioni? «Non è stato detto. E ciò fa pensare che non ci si aspetti di arrivare presto al tavolo dei negoziati. Attualmente sono molte le contraddizioni sui territori che la Russia ambisce a tenersi. Formalmente, seppur indirettamente, la Russia ha pretese "solo" sulle regioni di Donetsk e Lugansk. Nel frattempo però sta occupando e promette di occupare sul lungo periodo anche le zone di Kherson e Zaporizhzhia, sulle quali non sono state però diffuse delle indicazioni ufficiali. E nemmeno si è fatto un riferimento esplicito, come successo all'annessione della Crimea, all'idea di Novorossiya, un concetto che richiama a governatorati della Russia imperiale che ricalcano geograficamente buona parte dei territori attualmente controllati dall'esercito russo». Al Cremlino, quindi, le intenzioni sembrano meno chiare rispetto a qualche anno fa.
Il passato, il presente, le sanzioni
Ma perché concentrare così tante delle proprie attenzioni sul passato? Perché, nel bel mezzo di un nuovo conflitto, creare una coreografia che ricordi la Seconda guerra mondiale? «La Grande guerra patriottica è un momento molto celebrato, di unità, sin dal periodo dell'Unione sovietica», spiega Comai. «Ma all'epoca le grandi parate del 9 maggio hanno avuto luogo solo in poche occasioni, per gli anniversari importanti. Dagli anni '90, dalla caduta dell'URSS, sono state introdotte ogni anno». Una celebrazione a cui tiene particolarmente lo stesso zar. «La memoria della Grande vittoria è uno dei due elementi legittimanti di Putin. È il momento scelto su cui fondare l'unità nazionale. Un evento unificante fra tutti i diversi popoli che abitano la Russia». Un Paese a pieno titolo «multinazionale». La presenza di molte etnie unite sotto un'unica bandiera è «un aspetto su cui insistono molto lo stesso Putin e la televisione russa». Ma parlavamo di due elementi legittimanti per il potere di Putin. Qual è l'altro? «Il secondo parte da un momento tragico, di trauma, condiviso dalla nazione. Parliamo della povertà degli anni '90 e del fatto che la Russia sia stata lasciata, secondo il Cremlino, nella miseria. Umiliata dall'Occidente dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Il potere di Putin è basato su questo concetto: offrire un governo diverso da quello degli anni '90. Uno che sia forte, stabile e con un crescente benessere economico. Una logica di legittimità che sta perdendo valore ora che, a causa dell'intervento militare, stabilità e benessere economico cominciano a vacillare».
Già. Il gigante russo sta incassando una sanzione dietro l'altra. Ma per vederlo veramente crollare e, di conseguenza, più disposto ad abbandonare l'Ucraina, ci vorrà ancora un po' di pazienza. «Ben difficilmente tali misure hanno un impatto nel brevissimo periodo, a maggior ragione per un Paese come la Russia, che ha avuto una politica fiscale austera per molti anni, e che possiede quindi molte riserve. Si pensi poi che Mosca ha ancora un flusso di introiti significativo grazie a gas e petrolio che continua a vendere. Da questo punto di vista è normale che le sanzioni non sembrano aver ancora inciso fortemente». Nel medio periodo, sottolinea Comai, «queste sanzioni avranno sicuramente un impatto molto significativo per la Russia e per il benessere della popolazione. È giusto continuare a pensare a sanzioni mirate che vadano a colpire, più che gli oligarchi, le capacità da parte del Cremlino di finanziare lo sforzo bellico. Ma bisogna anche ragionare sull'impatto che tali misure avranno sui civili. Sanzioni prolungate portano problemi a una popolazione il cui Stato offre già servizi pubblici carenti. In un Paese in cui la povertà è relativamente diffusa, un calo significativo del benessere può avere un costo umano molto importante. Ripeto: è giusto pensare a fermare la macchina bellica del Cremlino», conclude Comai, «ma bisogna anche preoccuparsi dei russi che subiranno le conseguenze. Non bisogna giustificare degli approcci di colpa collettiva contrari al nostro ordinamento giuridico, ai diritti umani e ai nostri sistemi di riferimento».