L'approfondimento

Femminicidi e media: tra spettacolarizzazione e responsabilità

Partendo dal caso Cecchettin che ha sconvolto l'Italia, con il professor Colin Porlezza dell'USI analizziamo il ruolo della cronaca nel raccontare tragedie di questo tipo
©Lucrezia Granzetti/LaPresse
Federica Serrao
21.11.2023 20:15

I notiziari, le testate giornalistiche e le piattaforme social in tutta Italia in questi giorni non hanno parlato d'altro. La tragedia che ha colpito la vicina Penisola ha avuto un'eco mediatica così forte da arrivare fino alle nostre latitudini. Parliamo del caso di Giulia Cecchettin, la ragazza veneta scomparsa per una settimana insieme all'ex fidanzato Filippo Turetta. Il cadavere della giovane è stato ritrovato sabato, in un canalone a Pian delle More: una zona impervia della provincia di Pordenone. Da indagato per tentato omicidio, Filippo Turetta è immediatamente diventato indagato per omicidio volontario aggravato. E la vicenda, va da sé, ha riacceso i riflettori sui femminicidi e sulla violenza sulle donne, influenzando la cronaca italiana e diventando il principale argomento di discussione degli ultimi giorni. Alla luce di questo dramma, ci siamo interrogati con il professor Colin Porlezza (USI) sul rapporto che intercorre tra i femminicidi e i media, tra spettacolarizzazione, influenze e, soprattutto, responsabilità. 

Dalla società ai media

Il femminicidio è un fenomeno che ha guadagnato maggiore attenzione e visibilità nella cronaca giornalistica proprio negli ultimi anni. Anche se, come ci spiega Colin Porlezza, «non tutti i femminicidi vengono effettivamente coperti con lo stesso peso, o nella stessa maniera». Mentre il caso di Giulia Cecchettin è stato ampiamente trattato anche dai media fuori dall'Italia, ci sono altre tragedie che passano in sordina. «Alcuni femminicidi, come quest'ultimo, si prestano più facilmente a una specie di spettacolarizzazione per la presenza di un mistero o di un giallo, magari anche perché contengono degli elementi macabri o scabrosi. Capita invece che in alcuni casi, per esempio quando a essere uccise sono donne anziane, la vicenda venga tematizzata come "caso individuale", e la notizia non ha una forte eco mediatica», puntualizza il professore. 

Il modo in cui i media trattano il tema del femminicidio rispecchia anche un po' il trattamento del reato stesso e come viene affrontato all'interno del Paese
Colin Porlezza

Ma questa è solo la punta dell'iceberg. Quando si parla di femminicidi, bisogna fare attenzione anche al modo in cui vengono trattate queste tematiche a seconda del Paese in cui si verifica il fatto. «In Italia, dove è avvenuta la tragedia di Giulia Cecchettin, dal 2013 in poi sono stati approvati diversi decreti legge, piani di anti-violenza e una commissione d'inchiesta proprio sul fenomeno del femminicidio. Oltre a questo, anche l'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ha l'obbligo di realizzare, periodicamente,  indagini statistiche dedicate alla violenza contro le donne». Un contesto, questo, diverso da quello svizzero. «Da noi la situazione è un po' diversa. Nonostante le recenti proposte politiche, al momento non esiste una statistica che tenga conto dei femminicidi in modo specifico. Vengono riportati unicamente i casi della cosiddetta "violenza domestica", ma all'interno di questa categoria si trovano anche i casi di violenza dei genitori nei confronti dei figli, e viceversa». Dunque, nella Confederazione la violenza sulle donne rimane nell'ombra, e la conseguenza è che i femminicidi vengono riconosciuti come tali solo in maniera limitata, anche nella società. «In altre parole, il modo in cui i media trattano il tema del femminicidio rispecchia anche un po' il trattamento del reato stesso e come viene affrontato all'interno del Paese», precisa Porlezza. 

Tra spettacolarizzazione e normalizzazione

Partendo da questo presupposto, esistono essenzialmente tre modi diversi in cui i femminicidi vengono rappresentati dai media. «Esistono tre dimensioni della cronaca: la prima viene chiamata "femminicidio ad alto profilo di notiziabilità", che è, essenzialmente, quella a cui abbiamo assistito in questi giorni con il caso di Giulia. In questi casi, in particolare, ci sono tre elementi che contraddistinguono il fatto: il primo è, come già detto, quello del mistero. La presenza di un giallo che deve essere risolto e che quindi può costituire una vera e propria trama all'interno del racconto giornalistico», ci spiega l'esperto. «Nel susseguirsi dei giorni, molto spesso questo aspetto si mescola anche ai resoconti giornalistici, a intrecci e ipotesi, soprattutto molto più narrative, quasi stessimo a tutti gli effetti leggendo un giallo». Nel caso di Giulia Cecchettin, gli elementi in questione sono stati la scomparsa dei due giovani, la presunta fuga d'amore – ben presto smentita –, la targa dell'auto di Turetta e le segnalazioni del ragazzo in Austria, fino al macabro ritrovamento del cadavere della 22.enne, vicino al lago di Barcis. «Il secondo elemento di questa prima dimensione è la presenza di dettagli scabrosi, che suggeriscono magari anche la presenza di un comportamento non ordinario, fuori dal comune, e che spesso rendono la storia più sensazionale». In questo caso, per esempio, trovano spazio le congetture su Filippo Turetta, definito dai famigliari «il bravo ragazzo, che era solo un po' geloso», così come i particolari macabri sul modo in cui Giulia è stata uccisa. «In ultimo, i femminicidi ad alto profilo di notiziabilità sono caratterizzati da pathos, tragicità e narrazioni che ruotano intorno a degli sviluppi particolarmente drammatici». Nel caso Cecchettin, uno di questi elementi è la creazione di illustrazioni che mostravano l'aggressione di Turetta, basandosi sul filmato catturato dalle telecamere di sorveglianza. 

Spesso, come dimostrano le ricerche dell'iniziativa STOP Femminicidio in Svizzera, i nostri media – ma anche quelli dei Paesi germanofoni – sono meno inclini a una spettacolarizzazione
Colin Porlezza

Come detto, però, questa è solo una delle tre dimensioni che la cronaca utilizza nell'affrontare i femminicidi. «La seconda dimensione – che riguarda anche la Svizzera – è quello di vedere queste tragedie in un'ottica quasi di cronaca routinaria, quindi con un approccio magari anche di "normalizzazione". In particolare, si tratta di femminicidi che non presentano tutti i particolari elementi di notiziabilità di cui abbiamo parlato in precedenza, e la cronaca si trasforma dunque in un racconto della vicenda». Racconto che attraversa la ricerca di colpevoli, veri o presunti che siano, incrociando elementi narrativi «spesso stereotipati», che comprendono espressioni e luoghi comuni, come l'amore malato, la paura dell'abbandono, i raptus, le gelosie e le provocazioni. «Spesso, come dimostrano le ricerche dell'iniziativa STOP Femminicidio in Svizzera, i nostri media – ma anche quelli dei Paesi germanofoni – sono meno inclini a una spettacolarizzazione, ciò nondimeno presentano spesso delle problematicità, ad esempio raccontano questi eventi trattando la violenza come un elemento che appartiene per lo più alla sfera privata o come problema di una coppia». Ci si concentra spesso sull'autore del reato, lasciando da parte il punto di vista della vittima o dei parenti, per fare degli esempi». Ci si concentra spesso sull'autore del reato, lasciando da parte il punto di vista della vittima o dei parenti, per fare degli esempi.

Nell'ultima dimensione, un po' più particolare, come ci spiega il professore, i femminicidi vengono invece qualificati come «tragedie della solitudine». «Le vittime sono magari donne anziane o malate, e la narrazione privilegia quindi un frame meno epico rispetto agli altri casi. Ci si limita a rilevare un clima di disperazione e di solitudine, all'interno del quale avviene l'omicidio».

La prospettiva principale dovrebbe sicuramente essere quella dell'informazione, ma è altrettanto importante evidenziare la problematicità del femminicidio stesso
Colin Porlezza

Le responsabilità dei media

Ma arriviamo, dunque, al nocciolo della questione. Appurato che esistono diversi modi per parlare dei femminicidi, a seconda del contesto, del luogo e della modalità in cui si verificano, bisogna fare attenzione ad alcuni aspetti particolarmente critici. «Il modo in cui i media parlano più in generale del femminicidio può, effettivamente, costituire un problema. Questo perché la copertura di queste notizie, che è sostanzialmente improntata al sensazionalismo, può avere derive pericolose, dal momento che si tratta di casi estremamente delicati che andrebbero gestiti in modo responsabile», sottolinea il professore. «Spesso, infatti, i giornali e le testate recuperano informazioni e materiali – come foto dagli account di social media della vittima o dell'aggressore – che aggiungono una dinamicità, spesso problematica, al caso». Non per nulla, esistono alcune linee guida sul modo in cui i media dovrebbero coprire questi casi di cronaca nera, in maniera più responsabile. «La prospettiva principale dovrebbe sicuramente essere quella dell'informazione, ma è altrettanto importante evidenziare la problematicità del femminicidio stesso, o la prevenzione, piuttosto che mostrare comprensione verso l'autore del delitto, o ricorrere agli stereotipi. E soprattutto, andrebbe evitato in tutti i modi di cercare interpretazioni o giustificazioni per un determinato tipo di reato. Perché il reato è un crimine, e non ha nulla a che vedere con l'amore o la sessualità», evidenzia il nostro interlocutore. 

E non è tutto. Come ci spiega Colin Porlezza, il rischio, in alcuni casi, è che si arrivi alla «commercializzazione estrema di un reato». «Un esempio concreto di questo aspetto è la rappresentazione della violenza, che dovrebbe essere evitata a tutti i costi. Nel caso di Giulia Cecchettin, per esempio, la vignetta realizzata sulla base del video delle telecamere di sorveglianza, per descrivere il momento dell'aggressione, è fuori luogo».  Cruciale, infatti, è ricordarsi che quando si parla di femminicidio, si affronta una tematica estremamente sensibile. «Un po' come accade quando si deve coprire un suicidio, anche in questo caso è bene seguire delle linee guida. Perché il femminicidio è l'ultimo atto di una catena di eventi, di sopraffazioni e di giochi di potere che molto spesso sono alimentati dagli stereotipi e dalle aspettative di genere radicate nel substrato sociale. Proprio per questo, bisognerebbe capire che si tratta di problemi sociali. E quando i media ritraggono questo tipo di violenze, come quella contro le donne, possono contribuire a una comprensione maggiore o minore del problema da parte della società, a dipendenza di come parlano del fenomeno», chiosa l'esperto. «Di conseguenza, se si continua a parlare di femminicidio come un caso di violenza domestica o di un caso individuale, piuttosto che di un fenomeno sociale, diventa automaticamente più difficile dare alla tematica il peso che meriterebbe. Ecco perché, in questi casi, la cronaca influenza la percezione dell'urgenza con cui la violenza contro le donne viene vista all'interno della società». 

Quando i media ritraggono questo tipo di violenze, come quella contro le donne, possono contribuire a una comprensione maggiore o minore del problema da parte della società, a dipendenza di come parlano del fenomeno
Colin Porlezza

E parlando sempre di responsabilità dei media, riflettiamo anche sul bisogno del lettore di rimanere aggiornato, leggendo talvolta anche i dettagli più macabri della vicenda. Capita, infatti, che gli articoli che ricevono più click siano quelli più ricchi di informazioni in cui viene descritto, per esempio, in maniera minuziosa il delitto. «Bisogna partire dal presupposto che, certamente, esiste una parte di pubblico molto interessata a una rappresentazione spettacolarizzata. Ecco perché, in questi casi i media soddisfano le aspettative dei lettori perché sanno benissimo che questi elementi più macabri contribuiscono alla spettacolarizzazione del mistero. Come detto, la notizia diventa un giallo che viene seguito in diretta, minuto per minuto, attraendo un sacco di lettori. La logica sottostante questi meccanismi per i media è, evidentemente, una logica economica. Ma questa, molto spesso, può entrare in conflitto con l'approccio editoriale. È anche a tal proposito che i giornalisti dovrebbero ricordare di essere più cauti nell'affrontare determinati fenomeni, proprio per evitare di rafforzare degli stereotipi o delle visioni, come nei casi di suicidio, dove dando troppe informazioni sul fatto, si potrebbero portare alcune persone a replicare il gesto». Insomma, ancora una volta, resta una questione di responsabilità.