Gas, petrolio, Russia: è la Norvegia l'alternativa?
Alternative energetiche. Le cerca, disperatamente, l’Europa. Da tempo. Ora che il sesto pacchetto di sanzioni dell’UE è diventato realtà, fra tentennamenti e polemiche, questa spinta è ancora più forte. E necessaria. Che fare, però? A chi rivolgersi, soprattutto? Detto delle fonti rinnovabili e del gas naturale liquefatto, nelle ultime settimane l’attenzione di molti si è concentrata su un Paese in particolare: la Norvegia. Ne ha parlato, fra gli altri, il premier polacco Mateusz Moriawiecki. Definendo «giganteschi» i profitti generati da Oslo grazie alla vendita di gas e petrolio.
Un'industria fiorente
La ricerca, spesso frenetica e confusa, di nuove fonti di approvvigionamento ha avuto, quale effetto, l’aumento della domanda per gas e petrolio provenienti dalla Norvegia. Di riflesso, beh, è aumentato anche il prezzo di vendita e sono aumentati, a loro volta, gli introiti. Di qui le attenzioni, anche politiche, dell’Unione Europea. Che, appunto, ha bisogno di energia.
Se è vero che il Paese, ad immagine delle ultime elezioni, ha mostrato una certa preoccupazione rispetto alla crisi climatica e alle generazioni future, l’industria degli idrocarburi – a maggioranza statale – rimane centrale. Anzi, centralissima: secondo l’ISPI rappresenta il 14% del PIL e il 40% delle esportazioni, dà lavoro a 200 mila persone (circa il 7% della forza lavoro totale) e alimenta il fondo sovrano più grande al mondo.
La guerra in Ucraina, se vogliamo, ha creato la tempesta perfetta. Il gas, infatti, viene scambiato a un valore di tre-quattro volte superiore rispetto allo stesso periodo dello scorso anno mentre il brent, che funge da petrolio grezzo di riferimento a livello mondiale, all’inizio dell’invasione ha superato i 100 dollari al barile e da allora non è più sceso.
Equinor, il colosso norvegese dell’energia, ha registrato guadagni record nel primo trimestre del 2022: quattro volte tanto prendendo come paragone il dato del primo trimestre dell’anno precedente. Le attività petrolifere, secondo il governo, dovrebbero fruttare 97 miliardi di dollari quest’anno. Un sacco di soldi, proprio così, che in larga parte confluiranno nel citato fondo sovrano.
La questione ucraina
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: la Norvegia è la soluzione a (quasi) tutti i problemi dell’Europa? E ancora: potrà, nel breve e nel medio periodo, rappresentare l’alternativa principale alla Russia? E infine: perché Oslo, a detta di alcuni leader europei, pensa più ad arricchirsi che ad aiutare, concretamente, l’Ucraina? «Per quanto riguarda il gas naturale, la Norvegia sta lavorando quasi a pieno regime quindi non ha la possibilità di aumentare significativamente le esportazioni nel breve periodo» afferma a tal proposito Ruud Egging-Bratseth, professore attivo presso il Dipartimento di Economia Industriale e Gestione della Tecnologia in seno alla Norwegian University of Science and Technology, da noi contattato. «La Norvegia, come molti altri Paesi europei, ha donato ingenti somme di denaro e armi all’Ucraina». In linea generale, Oslo dedica l’1,09% delle sue risorse all’aiuto e allo sviluppo all’estero. Nel 2021 ha versato poco più di 40 miliardi di corone norvegesi, circa 4 miliardi di franchi. Rimanendo al conflitto, finora Kiev ha ricevuto poco più di 200 milioni di dollari dal Paese scandinavo. Troppo poco, stando a una parte di opinione pubblica.


La pressione
L’embargo al petrolio russo imposto dall’Unione Europea, dicevamo, ha aumentato la pressione sulla Norvegia. Di nuovo Egging-Bratseth: «Il mercato del petrolio è un mercato globale. Ritengo che l’embargo spingerà le esportazioni russe verso altri Paesi importatori, ad esempio la Cina, nella misura in cui le infrastrutture di trasporto, penso a oleodotti e navi, lo consentiranno. E ritengo che altri fornitori potrebbero dirottare alcune esportazioni verso l’Europa».
Verosimilmente, prosegue il nostro interlocutore, «la Russia soffrirà a causa dei minori volumi di esportazione e forse dovrà scontare i prezzi ad altri mercati». Come per il gas, in ogni caso, «presumo che la Norvegia stia producendo quasi o al massimo della sua capacità, quindi non potrà aumentare di molto la produzione petrolifera. Tuttavia, se l’Europa ha una carenza di offerta i prezzi aumenteranno. Nel mercato petrolifero globale, questo dovrebbe attirare più offerta. Al contrario, se i prezzi sono in equilibrio a livello globale e qualche esportatore, ad esempio la Norvegia, porta più offerta in Europa, i prezzi si abbassano e alcuni altri fornitori dirottano le loro forniture verso altre regioni con prezzi relativamente più alti. Ciò renderebbe il mercato potenzialmente più inefficiente».
Gli ambientalisti
Gli ambientalisti, intanto, sono sempre più critici e (forse) pure scettici. Altri, banalmente, vedono un paradosso: il fondo sovrano, che nelle intenzioni del governo dovrebbe aiutare il Paese nella transizione energetica, come abbiamo detto è alimentato dall’industria degli idrocarburi. Come la mettiamo con gli obiettivi climatici fissati dall’Accordo di Parigi? «La strategia del fondo – chiarisce il professore – include clausole riguardanti l’ambiente, il clima e vari tipi di obiettivi etici, conformi a quelli di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Ricordo, in tal senso, che il fondo ha esplicitamente preso decisioni di disinvestimento basandosi su questi motivi. Per natura, questi grandi fondi non cambieranno drasticamente le proprie politiche nel breve periodo. Il fondo sovrano norvegese possiede circa l’1% di tutte le azioni quotate in borsa a livello globale: le sue decisioni e comunicazioni influenzano i mercati e i prezzi».
Fatte le dovute premesse, ci sono altresì «le intenzioni del governo norvegese di continuare a sfruttare petrolio e gas». Questo perché, per dirla con Egging-Bratseth, il mondo avrà bisogno di petrolio e gas per altri decenni. La Norvegia è tra i primi Paesi ad aver adottato misure per ridurre e minimizzare l’impatto ambientale e climatico diretto causato dalla produzione di petrolio e gas. Una mossa unilaterale da parte della Norvegia per eliminare rapidamente la produzione di petrolio e gas porterebbe molto probabilmente a un aumento dei prezzi, soprattutto in Europa, a una produzione più sporca in altre regioni (ad esempio, petrolio e gas di scisto negli Stati Uniti, sabbie bituminose in Canada) e a maggiori profitti per i regimi dittatoriali in altre parti del mondo.
La Norvegia, ad ogni modo, è ben posizionata per fornire grandi quantità di elettricità e idrogeno all’Europa grazie all’eolico offshore e per fornire servizi di bilanciamento per l’eolico e il solare variabili grazie ai bacini idroelettrici. Una strategia a lungo termine per la Norvegia dovrebbe prendere in considerazione la costruzione di infrastrutture per fornire energia verde e flessibilità all’Europa, eliminando gradualmente petrolio e gas, nell’arco di diversi decenni».


Fra profitti e svolte
Il nostro interlocutore, concludendo, tocca un tema centrale: i guadagni. Se la Norvegia, per ora, non molla gas e petrolio è perché il business rende parecchio. «I profitti nei mercati del petrolio e del gas sono tradizionalmente molto elevati e non vedo come le energie rinnovabili possano avvicinarsi a rendimenti simili. Si tratta nondimeno di una sfida per le aziende del settore petrolifero e del gas, in quanto gli azionisti si aspettano profitti molto elevati, crescita degli utili e dividendi. Sfortunatamente, questi profitti sono stati in gran parte dovuti all’aver ignorato i costi dell’emissione di anidride carbonica e metano nell’atmosfera. Da un punto di vista sociale, quindi, i profitti reali della produzione di petrolio e gas sono sempre stati molto più bassi, ma questa non è ovviamente la prospettiva degli azionisti delle compagnie petrolifere e del gas».
L'accordo di Parigi, per contro, «è molto importante ma deve essere visto in relazione agli altri obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Qualsiasi misura drastica in un settore può avere effetti collaterali negativi non voluti in altri».