Gli ebrei russi hanno paura del Cremlino
Molti, beh, se n’erano andati all’inizio della guerra. Tanti, però, sono rimasti. E ora, in una Russia sempre più illiberale e repressiva, temono di diventare un obiettivo del Cremlino. Parliamo di religione e, nello specifico, degli ebrei russi. Che faticano (eufemismo) a criticare la cosiddetta operazione speciale di Vladimir Putin. Il quale, come noto, aveva lanciato l’offensiva al grido «denazifichiamo l’Ucraina».
Politico, in un approfondimento, ha dato parola a un rabbino di Mosca. «Nella nostra congregazione non parliamo di questioni politiche», ha tagliato corto. «Qualsiasi parola che diciamo pubblicamente sulla guerra può essere usata contro di noi come comunità ebraica».
La storia insegna
Secondo le stime, circa un terzo degli ebrei che vivono in Russia sta esprimendo in maniera attiva la propria opposizione. In generale, però, prevale la paura a esprimersi mentre soltanto un 10-15% sostiene la guerra. Non solo, i leader religiosi ebraici hanno lanciato vari appelli mentre Berel Lazar, il rabbino capo della Russia, noto per la sua amicizia con Putin, ha chiesto la pace e si è pure offerto come mediatore. Il tutto mentre il rabbino capo di Mosca, Pinchas Goldschmidt, ha lasciato la Federazione trovando riparo in Israele.
La comunità ebraica, soprattutto, teme che con il passare della guerra il Cremlino cerchi (e trovi) nuovi capri espiatori. Lo insegna la storia, in fondo: la storia del Paese è costellata di pogrom, ovvero sommosse popolari verso minoranze religiose. Ve ne furono di violentissimi a Odessa e Rostov all’inizio del Novecento, anche se il caso più noto riguarda l’ondata di violenza antisemita che si scatenò in seguito all’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881.
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, a suo tempo, aveva paragonato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ad Adolf Hitler affermando che quest’ultimo «aveva anche sangue ebreo». Putin, successivamente, si era scusato per l’uscita infelice di Lavrov scusandosi con il primo ministro israeliano Naftali Bennet. Ma per gli ebrei russi si è trattato di un forte, fortissimo campanello d’allarme.
I sondaggi, per quel che valgono, sostengono che la vita degli ebrei russi sia migliorata dal crollo dell’Unione Sovietica a oggi. Secondo il Levada Center, ad esempio, il 45% dei russi nel 2021 aveva un atteggiamento positivo nei confronti degli ebrei: un balzo in avanti rispetto al 22% del 2010. Solo l’11% degli interrogati, tuttavia, ha detto di essere pronto ad avere un amico ebreo (3% nel 2010).
I sondaggi, sempre loro, non tengono conto della persuasione che può esercitare il Cremlino in qualsiasi momento. Se le autorità lo volessero, insomma, la fiammella antisemita potrebbe riaccendersi in men che non si dica.
Gli arrivi a Tel Aviv
Israele, intercettando un bisogno reale, ha velocizzato il suo programma di immigrazione dedicato alla diaspora ebraica, noto come Aliyah e codificato nella Legge del ritorno. I tempi di attesa ai consolati locali sono stati ridotti da nove mesi a poche settimane mentre Tel Aviv ha pure concesso ai rifugiati di richiedere la cittadinanza una volta arrivati in Israele.
Dati alla mano, nel 2019 in Russia vivevano circa 165 mila ebrei. La sesta comunità ebraica più popolosa al di fuori di Israele. Nei tre mesi successivi all’invasione dell’Ucraina, a 10 mila è stata concessa la cittadinanza israeliana. Un numero estremamente alto considerando che nei mesi precedenti le richieste si fermavano a 800.
Adattarsi a un nuovo Paese, ad ogni modo, non è affatto scontato. Esistono, da tempo, gruppi Facebook dedicati. Uno di questi, gestito da Olga Bakushinskaya, ha dovuto far fronte a una vera e propria esplosione di richieste d’aiuto. In febbraio, oltre 3 mila ebrei russi e ucraini si sono uniti al gruppo che, fra le altre cose, dà una mano ai nuovi arrivati nelle pratiche quotidiane: aprire un conto in banca, iscrivere i figli a scuola, fare amicizia. Sciocchezze, a ben vedere, rispetto al rischio di finire nel mirino del Cremlino.