L'approfondimento

Gli oligarchi: quando in Russia affari e politica si saldano

Il fenomeno degli oligarchi russi ed ex sovietici non ha eguali: ha persino mutato il senso della parola oligarca, che ormai indica d'istinto gli affaristi dell'Europa dell'est e ha preso una vena dispregiativa
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Luca Lovisolo
30.05.2024 06:00

Come abbiamo ricordato nel precedente articolo, l’economia è una chiave indispensabile, per capire la Russia degli anni Novanta. Abbiamo lasciato in sospeso un fenomeno tipico di quel tempo: la comparsa degli oligarchi. Oligarchia significa governo di pochi, la sua storia rimonta alla Grecia antica. Anche in epoche successive, quando si definivano certi Stati come repubbliche, non si intendeva una democrazia moderna, ma il governo di una piccola cerchia: un’oligarchia.

Gli Stati controllati da gruppi ristretti non mancano nemmeno oggi. Il fenomeno degli oligarchi russi ed ex sovietici, però, non ha eguali. Ha persino mutato il senso della parola oligarca, che ormai indica d’istinto gli affaristi dell’Europa dell’est e ha preso una vena dispregiativa, poiché si riferisce a persone dalle ricchezze smisurate che esercitano influenze improprie.

Gli oligarchi germogliano da una radice che affonda sino al periodo comunista. Vitalij Vrublevskij, collaboratore di governo dell’Ucraina sovietica, riporta nelle sue memorie il pensiero dell’allora primo segretario del Partito comunista ucraino, Vladimir Ščerbickij. Questi riconosceva, con schiettezza inusuale per quel tempo, che la fine dell’Unione sovietica era dovuta a un fallimento morale, prima che economico. L’amministrazione sovietica era diventata una macchina di interessi privati, corruzione e burocrazia già prima del crollo del comunismo.

Un bilancio impossibile da compilare

Quando Michail Gorbačëv sale al potere, nel 1985, chiede un bilancio aggiornato dell’Unione sovietica: si accorge con sgomento che nessuno è in grado di darglielo. Il comunismo esclude l’impresa privata, lo Stato dispone di una sostanza importante: industria estrattiva e metallurgica, costruzione di autoveicoli e macchine utensili, industria bellica, apparato distributivo. Il bilancio dello Stato-imprenditore è un groviglio inestricabile; poi ci sono i budget «nascosti» dei militari e dei servizi segreti, tanto segreti che eludono persino il controllo del governo; ci sono gli aiuti ai «Paesi fratelli» nelle zone d’influenza di Mosca nel mondo.

Infine, poiché l’economia ufficiale non soddisfa le esigenze della vita quotidiana – osserva Roj Medvedev nel suo saggio Gli ultimi anni dell’Unione sovietica – una fetta dell’economia dell’URSS si cela in transazioni in nero che sfuggono a ogni conteggio. La radice culturale da cui fioriscono gli oligarchi affonda nel passato sovietico che ha dimenticato l’idealismo comunista.

Comincia la privatizzazione dell’economia sovietica

Sono queste le basi sulle quali Gorbačëv comincia a privatizzare l’economia, mentre le condizioni di vita della popolazione precipitano. Anatolij Černjaev, suo consigliere per la politica estera, scrive nell’autunno del 1990: «Mi sono seduto e ho cominciato a scrivere la lettera di Gorbačëv a [Helmut] Kohl [allora capo del governo tedesco]. In alcune regioni siamo ormai alla fame. Nelle miniere del Kuzbass cominciano gli scioperi […], nei negozi di alimentari delle grandi città gli scaffali sono letteralmente vuoti. Michail Sergeevič [Gorbačëv] chiede a Kohl aiuto urgente: vuole che dica alle banche [tedesche] di aprirci delle linee di credito e farci pagamenti anticipati, impegnando come garanzia il patrimonio militare che le nostre truppe lasceranno sul posto dopo essersi ritirate dalla Germania [est]».

Questa testimonianza ci dà il destro per ricordare un fenomeno che in quegli anni accresce lo smarrimento della popolazione, oltre al disagio economico. Crollano le alleanze di Mosca nel mondo. Più di un milione di sovietici – militari, le loro famiglie e i loro collaboratori – rientrano dai Paesi alleati, ma l’Unione sovietica non ha mezzi per alloggiarli. Molti svernano a lungo nelle tendopoli. Intanto, per sanare le prime necessità dei cittadini, arrivano aiuti umanitari dall’Occidente, come in tempo di guerra.

Il vecchio pensiero collettivista non muore

Il metodo scelto per la prima privatizzazione dell’industria sovietica svela l’incapacità di svincolarsi dal pensiero collettivista. Anziché vendere le aziende a privati, il governo le cartolarizza, emettendo voucher fruttiferi da distribuire alla popolazione, con la promessa di riceverne un interesse annuo. L’idea è messa in pratica dal ministro delle finanze Egor Gajdar, che la affida al tecnico Anatolij Čubajs. Quest’ultimo, consapevole che l’incarico non gli porterà bene, risponde: «Egor, lo sai che, comunque andranno le cose, tutti mi odieranno per il resto della mia vita come colui che ha svenduto la Russia?». Il ministro gli ribatte: «Tutti dobbiamo bere da questo amaro calice». La storia darà ragione a entrambi.

La distribuzione dei voucher è accompagnata da una martellante campagna mediatica all’insegna dello slogan «Tvoja dolija», La tua parte. L’intento è persuadere i cittadini a rallegrarsi di essere comproprietari del patrimonio industriale. Ma i cittadini hanno bisogno di pane, non di brioches, per parafrasare un celebre detto. Degli assegnini che li trasformano in azionisti non sanno che farsene, hanno bisogno di contante. Così, un numero molto ristretto di persone che aveva accumulato ricchezze negli ultimi spasmi dell’Unione sovietica comincia a fare incetta dei voucher, comprandoli dai cittadini per cifre irrisorie. Si concentra così in poche mani un capitale smisurato. Altri conferiscono i voucher a fondi di investimento o li scambiano con azioni societarie. La cittadinanza è imbrigliata in meccanismi economici che non capisce fino in fondo.

Oligarchi, politica e business

Un paradigma per tutti gli oligarchi, in quel momento, è la figura di Boris Berezovskij. Non è uno qualunque: matematico, in Unione sovietica era membro dell’Accademia delle scienze russa, gratificato con il Premio del Komsomol leninista. Si fa largo con abilità, lancia, tra altri, il progetto di uno stabilimento ad azionariato diffuso per la costruzione di automobili, un business che non raggiunge i suoi obiettivi, confluisce in uno dei maggiori produttori ex sovietici. Berezovskij si cimenta con i media, controlla diversi giornali e la rete ORT, che include il primo canale TV russo; al suo vertice nomina un noto presentatore che finirà ucciso di lì a poco. È un episodio della lotta all’ultimo sangue intorno ai media privati. Nella nuova Russia, giornali e TV diventano altoparlanti dei gruppi di potere intorno agli oligarchi e dei partiti politici che li rappresentano.

Intanto crescono altri protagonisti, tra questi i più giovani Roman Abramovič e Michail Chodorkovskij. Berezovskij sostiene il partito Edinstvo (Unità), alla cui presidenza sale un giovane Sergej Šojgu, futuro ministro della difesa russo (silurato appena qualche giorno fa da Vladimir Putin). Intorno a Berezovskij si coagulano politici e affaristi che sostengono la rielezione di Boris Eltsin a presidente per il secondo mandato, nel 1996. Sono loro che imprestano soldi allo Stato, per fingere dinanzi agli elettori un miglioramento dell’economia, e pompano la campagna elettorale di Eltsin sino a farne quasi una parodia. Ne ottengono in cambio la proprietà di aziende di Stato date in pegno per i prestiti, mai restituiti, assegnate con aste derubricate a mere formalità. Eltsin vince. I russi faticano a sopravvivere, mentre vedono sfilare nelle strade le limousine degli oligarchi e dei loro portaborse.

La privatizzazione continua: la «famiglia» di Eltsin

Con questa inusuale «privatizzazione» lo Stato cede agli oligarchi un’altra tranche di patrimonio. Ne è protagonista il circolo di affaristi e confidenti di Eltsin che nel gergo di quegli anni è detto «la famiglia» e gestisce di fatto le questioni di Stato, dietro a un presidente sempre più compromesso nella salute. La saldatura tra affari e politica è totale.

Della «famiglia» fa parte anche Vladimir Putin. È arrivato da San Pietroburgo nel 1996 come funzionario della presidenza e nel 1998 passa alla direzione dei servizi segreti. Berezovskij, con il partito Edinstvo, è tra i principali artefici della salita alla presidenza di Putin come garante di continuità della «famiglia» di Eltsin.

Appena salito al soglio presidenziale, invece, Putin volta la faccia ai suoi sostenitori e allo stesso Eltsin: dietro ha i suoi uomini di San Pietroburgo e i servizi segreti. Berezovskij ripara all’estero, morirà in circostanze misteriose. Dal partito Edinstvo nasce Edinaja Rossija («Russia unita»), il partito di Putin. Chodorkovksij finisce in carcere per reati fiscali, dopo un processo di forte marca politica. Amnistiato, si installerà in Europa, oggi è un noto dissidente antiputiniano. Altri affaristi fuggono, o si piegano a Putin per evitare l’epurazione. È diffusa l’idea che Putin abbia ridotto l’influenza degli oligarchi: in realtà, ha sostituito il «giro» di Eltsin con il proprio e portato ai vertici dello Stato il modus operandi dei servizi segreti.

Gli oligarchi hanno mille volti ma un solo agire comune. Operano in una Russia senza regole o dove le regole si fanno a piacimento; cancellano ogni barriera tra affarismo e politica, mentre i cittadini comuni ignorano le astuzie dell’economia e ne diffidano per il pregiudizio instillato dal comunismo. Gli oligarchi non incidono solo sulla prima Russia postsovietica: agiscono ancora oggi, alcuni ben oltre i confini del loro Paese.

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per leggere la seconda puntata clicca qui. Per leggere la terza puntata clicca qui. Per leggere la quarta puntata clicca qui.

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