«Gli stupri non sono solo figli dell'odio»
Uccisioni. Violenze sessuali. Stupri. L’elenco delle atrocità commesse dall’esercito russo, in Ucraina, è lungo. Lunghissimo. A Bucha, in particolare, l’invasore ha colpito forte. Lasciando dietro di sé orrore e sgomento. Da settimane, per forza di cose, il tema occupa uno spazio di rilievo nel discorso mediatico. Per capirne di più ci siamo rivolti alla dottoressa Marianna Muravyeva, professore associato presso il Finnish Centre for Russian and East European Studies dell’Università di Helsinki.
Dottoressa,
innanzitutto le chiediamo se questi stupri corrispondono o meno a una precisa
strategia militare della Russia, per quanto assurda possa sembrare ai nostri
occhi.
«Praticamente ogni esercito, nel corso della storia, ha commesso stupri. A
livello di ricerca, riteniamo che una simile pratica rientri in una precisa
strategia militare. Che, insomma, sia uno strumento di guerra. In qualsiasi
campagna, beh, gli stupri vengono perpetrati per demoralizzare la popolazione,
ma anche per mostrare la propria superiorità rispetto al nemico. Sono un mezzo
per umiliare le donne e non solo, visto che violenze sono state commesse anche
contro uomini e bambini. E non è assurdo pensare allo stupro come a uno
strumento di guerra. La legge internazionale riconosce che gli stupri di massa
sono crimini di guerra. Detto di Bucha, esempi recenti sono legati alla Bosnia
e al Ruanda».
Le
immagini e le testimonianze di Bucha, va da sé, sono lontanissime dalla
narrazione di Vladimir Putin.
«Ed è qualcosa che disturba. Putin parla di operazione speciale, con obiettivi
strategici e, appunto, militari. Sul campo, e attenzione perché non sappiamo
esattamente chi compone l’esercito russo, piovono però denunce di violenze
sessuali e stupri ai danni di donne e bambini. Significa che, al di là delle parole
usate, la strategia è sempre quella: colpire i civili. Non è una novità, ad
ogni modo. Anche le forze di pace delle Nazioni Unite, in passato, hanno
commesso abusi. Uno si aspetterebbe, nel 2022, con la legge internazionale che
tutela i civili, che gli eserciti si comportino meglio. Non è così. Per quanto
sia migliorata la situazione, quando scoppia una guerra è come se si spegnesse
l’interruttore».
Anna
Politkovskaya, a suo tempo, denunciò le pratiche barbare all’interno dell’esercito
russo. Il nonnismo, noto come Dedovshchina, è ancora una pratica diffusa?
«È una domanda problematica. La Dedovshchina non è una specificità dell’esercito
russo. Il nonnismo è una componente di qualsiasi struttura militare maschile. È
una questione di gerarchia, di relazioni e potere. Attraverso gli abusi, i
soldati più anziani ‘‘insegnano’’ alle nuove reclute a inserirsi nell’esercito.
La Dedovshchina si trova anche fra le forze di polizia, o ancora in altri tipi
di strutture gerarchiche come le prigioni. Anna Politkovskaya ne ha parlato
tanto in relazione alle guerre cecene. Ma, come detto, è un discorso che
trascende la Russia: non è, insomma, il frutto di una specifica cultura, semmai
della mascolinità e, ancora, delle relazioni di potere. L’esercito, per sua
natura, è violento. Ogni esercito lo è. La Dedovshchina, venendo a quello
russo, è un mezzo che contribuisce a creare e rafforzare questa violenza, affinché
le reclute, una volta in guerra, sappiano agire di conseguenza».
La
Russia, però, almeno sulla carta aveva fatto molto per eliminare le pratiche di
nonnismo e per disciplinare le sue truppe. Perché, allora, da un lato esiste
ancora la Devoshchina e, dall’altro, a Bucha come altrove sono stati commessi
stupri?
«Esiste ancora, sì. Anche se, dall’altra parte, molto è stato fatto per
combatterla e perseguirla all’interno dell’esercito. Rispetto agli anni
Novanta, beh, è indubbio che la situazione a suo modo sia migliorata. Pensare, tuttavia,
che la Devoshchina sia sparita o che non vengano più commessi stupri è
sbagliato».
Può
essere più precisa?
«Il nonnismo non è dappertutto, ad esempio in marina è meno diffuso se non
addirittura assente mentre nella fanteria è una pratica normale. Il punto è se
la Devoshchina viene incoraggiata o meno. Se, ad esempio, gli ufficiali ti
dicono che è l’unico modo per diventare uomo e per essere un buon soldato. A
quel punto, è difficile contrastarla. Nell’esercito russo sono state varate
diverse riforme, almeno questo è quello che ci è stato detto. L’esercito ora è
più moderno, efficiente, disciplinato. Singoli casi di nonnismo, però, emergono
sempre».
È
corretto affermare che gli stupri commessi dai soldati russi in Ucraina sono
altresì il risultato del contesto in cui questi soldati sono stati addestrati?
In altre parole, chi è stato addestrato all’odio commetterà odio senza rimorsi
o sentimenti.
«Sarebbe, in effetti, un modo accurato per descrivere come si comportano i
soldati. Ma è un punto di vista semplicistico sul perché vengono commessi gli
stupri. Non vengono commessi solo per odio, ma anche per odio. Per dire: in
Russia c’è un silenzio assoluto sulle violenze commesse dall’Armata Rossa
durante la Seconda guerra mondiale, d’altronde parliamo dell’esercito che
sconfisse il nazismo. Ma una spiegazione banale potrebbe essere che i soldati
odiavano a tal punto i nazisti che non si facevano problemi a violentare le
donne tedesche. L’odio, però, è solo una parte dell’equazione. Gli stupri ai
danni dei civili sono anche il risultato dell’assenza di disciplina. Se chi è
in carica di un’unità si gira dall’altra parte o non instilla l’idea che i
civili vadano trattati secondo le leggi internazionali e, fatto importante,
quelle russe, i soldati continueranno a commettere abusi. No, non è solo odio».
Anche
perché, in teoria, l’Ucraina fa parte della Russia secondo la narrazione
putiniana.
«Proprio così. È problematico, in questo caso, pensare che dietro a stupri del
genere ci sia l’odio verso una terra, l’Ucraina, che fino a pochi anni fa era
parte di una nazione comune, l’Unione Sovietica. E che per molti russi è considerata
una culla. L’Armata Rossa che odiava i nazisti poteva soddisfare come
spiegazione, ma qui parliamo di tutt’altro. Ribadisco, è un problema di
disciplina essenzialmente. Israele, secondo le nostre ricerche, non ha mai
fatto ricorso allo stupro come strumento di guerra. E questo perché il sistema
di denunce interne funziona, come funzionano le punizioni per chi sgarra. Anche
il codice militare russo, in materia, è molto forte e ben disciplinato. Anche
sul fronte della difesa dei civili e in particolare delle donne. È un codice
che affonda le sue radici addirittura nel Sedicesimo secolo. Eppure, i soldati
continuano a commettere stupri. Significa che, al momento, manca un meccanismo
che incoraggi a denunciare e a perseguire penalmente questi crimini».
Quindi
molti autori potrebbero restare impuniti?
«Le vittime di stupri, in Ucraina, si sono rivolte a organizzazioni come la
Croce Rossa. E questo perché, appunto, è difficile trovare giustizia attraverso
il sistema russo. Nella Federazione, poi, c’è una sorta di cultura al
contrario, che consiste nel non riportare una violenza alle autorità. Una
speranza, proprio grazie alle istanze internazionali e a un miglior accesso
alle testimonianze, c’è. La situazione è ben diversa rispetto a quanto successe
in Bosnia e in Ruanda. Al di là delle leggi e delle punizioni, ad ogni modo,
resta una verità: gli uomini commettono stupri perché sentono di poterlo fare.
Non perché manchi uno spazio legale, ma perché pensano di poter agire in questo
modo».
È
solo colpa dei militari e di come viene gestito il loro addestramento? La
società russa, dall’esterno, sembra sempre più tossica, virile e maschilista.
Può l’ideologia veicolata da Putin spingere verso queste pratiche e perfino
giustificarle?
«L’ideologia putiniana non giustifica gli stupri, né Putin può essere visto o
interpretato come un macho. All’epoca dell’Unione Sovietica l’uguaglianza fra
uomini e donne era incoraggiata, quindi questa mascolinità tossica è arrivata
più tardi. Ma Putin non c’entra, anche perché piuttosto è il ruolo che
interpreta, quello del presidente, a renderlo forte. Il simbolismo che lo
accompagna».