«Hamas è un'idea: non si può sconfiggere solo con la forza militare, va sostituita»
Grassroots. In italiano li chiamiamo «movimenti di base», ma il nome in inglese – letteralmente, «radici d'erba» – rende meglio l'idea sulla loro natura e il loro scopo. Proprio come le radici di una qualsiasi graminacea, del resto, questi movimenti politici crescono in modo assolutamente spontaneo, dal basso verso l'alto, e senza che qualcuno si prenda la briga di piantarli. Anzi. Una volta cresciuti, averci a che fare può risultare difficile. Lo sa bene il governo israeliano, che sin dai primi mesi di guerra a Gaza ha dovuto fare i conti con movimenti israeliani di base attivi a sostegno di un cessate il fuoco nella Striscia. Uno in particolare, con le sue T-shirt e bandiere viola così riconoscibili, appare un po' ovunque nelle foto provenienti negli ultimi giorni da Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme. Si tratta di Standing Together, la più grande organizzazione di questo tipo attiva in Israele. Ma quali sono gli obiettivi di questo grassroots? E che cosa vuole per il futuro della popolazione israeliana e di quella palestinese? Ne abbiamo parlato con uno dei suoi leader, Uri Weltmann, national field organizer del movimento.
Uri Weltmann, andiamo per ordine. Che cos'è, in breve, Standing Together?
«Standing Together è un movimento politico di base che organizza e mobilita cittadini ebrei e palestinesi di Israele che si battono per la pace, l'uguaglianza, la giustizia sociale e climatica. Il nostro è un movimento relativamente nuovo – fondato meno di dieci anni fa – che oggi conta più di 5.000 membri iscritti in tutto Israele con una quota mensile, attivi in gruppi locali nella loro città, regione o campus universitario. Siamo impegnati in molte campagne, a livello sia locale sia nazionale e, naturalmente, negli ultimi 11 mesi, dall'inizio di questa guerra, siamo molto coinvolti a sostegno di un'alternativa di pace israelo-palestinese».
Quali azioni avete messo in campo, esattamente, nell'ultimo anno?
«Dopo il 7 ottobre, una delle prime cose che abbiamo fatto è stata quella di organizzare gruppi locali di residenti ebrei e arabi che vivevano nello stesso quartiere, nella stessa città o in città vicine. Abbiamo creato 14 gruppi di "Guardie di Solidarietà" – così li abbiamo chiamati – diffusi in tutto il Paese, perché eravamo preoccupati che i politici di estrema destra al potere in Israele sfruttassero l'orrendo attacco di Hamas e la guerra che ne è seguita per creare scontri intercomunitari tra cittadini ebrei e palestinesi in Israele. Le Guardie di Solidarietà si sono quindi occupate di promuovere un'alternativa di pace e di uguaglianza, per smorzare i toni e combattere gli atteggiamenti razzisti utilizzati dal governo. Per esempio, nella zona del Triangolo, un'area con molti villaggi e città arabo-palestinesi all'interno di Israele, i contadini locali avevano difficoltà a trovare persone che aiutassero a coltivare i loro campi perché molti dei lavoratori immigrati che vivevano in Israele – per lo più provenienti dai Paesi asiatici – hanno lasciato il Paese dopo il 7 ottobre, temendo per la propria sicurezza. La Guardia di Solidarietà nell'area del Triangolo ha unito cittadini ebrei e arabi palestinesi di Israele invitandoli a fare volontariato, aiutando i contadini a coltivare la loro terra e salvandoli dall'indigenza. Ma abbiamo proposto tante altre azioni. Una che posso menzionare è l'organizzazione, da parte del nostro gruppo locale di Lod – città non lontana da Tel Aviv dove vivono sia ebrei che palestinesi – una raccolta di cibo e aiuti per quanti in Israele sono stati più duramente colpiti dalla guerra. Per le famiglie ebree dei kibbutzim che circondano la Striscia di Gaza, ad esempio, ma anche per le famiglie arabe palestinesi che risiedono nella parte occidentale del deserto del Negev. Simili atti di solidarietà sul campo hanno permesso alle persone di vedere con i propri occhi che un'alternativa è possibile, che ci si può organizzare insieme in un modo non intimidatorio e, anzi, accogliente anche per chi non ha un precedente background da attivista. Ciò ci ha permesso, già nei mesi di ottobre e novembre 2023, di mobilitare migliaia di persone sul territorio».
Ma avrete registrato anche delle difficoltà...
«Certamente. Ricordo, ad esempio, che una sera la Guardia di Solidarietà nella città di Gerusalemme, è uscita nelle strade per appendere manifesti in ebraico e arabo che diffondevano il messaggio: "Ebrei e arabi, supereremo tutto questo insieme". E un altro manifesto che recitava: "Solo la pace porterà sicurezza". La polizia di Gerusalemme ha arrestato gli attivisti di Standing Together, confiscando i manifesti e le "pericolosissime", evidentemente, T-shirt viola. Questo dimostra l'esistenza di una repressione di Stato e l'atmosfera che ha prevalso nelle settimane e nei mesi successivi al 7 ottobre. Un altro luogo in cui le azioni sul campo si sono scontrate con ostacoli e resistenze è stato, ad esempio, quando abbiamo organizzato una conferenza di solidarietà ad Haifa alla fine di novembre. Inizialmente, avremmo dovuto tenerle nel centro comunitario di proprietà del comune, ma attivisti di estrema destra hanno cercato di fare pressione sulle autorità cittadine affinché cambiassero idea sui permessi, e ci sono riusciti. Ventiquattr'ore prima dell'evento, il Comune di Haifa ha annunciato di aver ritirato l'invito. Siamo poi stati accolti dalla moschea locale e 700 persone hanno riempito la struttura fino alla sua massima capacità, obbligando chi è arrivato dopo ad affacciarsi alla finestra o a seguire, in una sala vicina, la proiezione video della conferenza. Sono un attivista per la pace da più di 20 anni e non ricordo di aver mai visto – in simili periodi di guerra – centinaia di cittadini israeliani riempire una moschea fino alla sua capienza per parlare di pace e della necessità di porre fine all'occupazione. Questo dimostra che le azioni di Standing Together all'interno della società israeliana, nelle settimane e nei mesi successivi al 7 ottobre, sono state in grado di toccare le persone».
Eppure, per quanto percepibile dall'esterno, sembra che nelle proteste – pur cresciute nelle ultime settimane – i temi dominanti siano "solamente" il rilascio degli israeliani presi in ostaggio da Hamas e la necessità di un cambio al governo. Quanti, in Israele, sono pronti a pensare a una pace duratura e al rapporto, nel lungo termine, con i palestinesi?
«A novembre, un cessate il fuoco temporaneo aveva permesso il rilascio di decine di ostaggi israeliani trattenuti da Hamas così come quello di centinaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri militari israeliane. Ma la tregua era crollata dopo una settimana perché il governo Netanyahu aveva posto degli ostacoli alla sua continuazione. Ciò che oggi e negli ultimi mesi la società israeliana chiede è il raggiungimento di un altro accordo che permetta il ritorno di tutti quanti sono ancora in vita. Ma i contorni di un simile deal sono chiari. Il presidente degli Stati Uniti Biden, nel suo discorso di maggio, aveva illustrato quale sarebbe il quadro di riferimento per il suo raggiungimento, e comprendeva, sì, il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani, ma anche un negoziato per la cessazione permanente delle ostilità. Ciò significa che da mesi, ormai, è chiaro che un accordo per la restituzione degli ostaggi israeliani è anche un accordo per porre fine alla guerra. Un recente sondaggio condotto dall'emittente israeliana Channel 11 ha dimostrato che la maggioranza degli israeliani ha compreso questo concetto. Il 52% dei cittadini intervistati ha dichiarato di essere favorevole a un accordo sugli ostaggi che ponga fine alla guerra e faccia uscire l'esercito israeliano dalla Striscia di Gaza. Ciò dimostra che la maggioranza degli israeliani ha capito come i due aspetti, la liberazione degli ostaggi e la fine della guerra siano legati in modo indissolubile e non possono avverarsi indipendentemente l'una dall'altra. L'unico che sostiene il contrario è il premier Netanyahu, che cerca di vendere all'opinione pubblica israeliana l'idea che si possa ottenere il rilascio degli ostaggi attraverso un accordo e allo stesso tempo continuare ad affrontare la guerra e mantenere la presenza militare all'interno della Striscia. Ma la maggioranza dei cittadini non si beve tali menzogne. Le proteste che hanno portato e portano centinaia di migliaia di persone in piazza nelle principali città israeliane, Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e altrove, vanno lette in questo modo. Standing Together sostiene da sempre questa linea: portare l'esercito israeliano fuori dalla Striscia di Gaza e riportare gli ostaggi vivi alle proprie famiglie sono due facce della stessa medaglia. Ma noi andiamo oltre: il nostro movimento ritiene che una sicurezza duratura per il nostro Paese sarà raggiunta solo con un accordo di pace israelo-palestinese, un accordo che includa la fine della guerra e porti alla creazione di uno Stato palestinese. È vero: quest'ultima, purtroppo, non è la più diffusa fra le richieste dei movimenti di protesta, ma noi, così come altre organizzazioni anti-occupazione e per la pace, cerchiamo di rendere più popolare l'argomento: crediamo che questa prospettiva a lungo termine sia necessaria».
Non c'è sicurezza senza pace, è questo uno dei motti più spesso utilizzati da Standing Together.
«E per una chiara ragione. La violenza di questa guerra contro la popolazione civile di Gaza non solo non porta sicurezza alla popolazione di Israele, ma la mina ulteriormente. La continuazione di un conflitto senza fine crea terribili rischi per la sicurezza dei cittadini israeliani. Siamo immersi in un ciclo di escalation senza fine. Abbiamo iniziato il 7 ottobre con una guerra a Gaza, ma ora sul tavolo c'è una guerra regionale in Medio Oriente: sul fronte settentrionale in Libano, sul fronte orientale con l'Iran. Quando si gioca con la guerra, si mette a rischio la sicurezza del proprio popolo. Quando ci si lancia nell'aggressione, cercando di mantenere un'occupazione che dura da decine di anni, si mina ulteriormente la sicurezza del proprio popolo. Riteniamo quindi che l'attuale governo israeliano, pur cercando di difendere, di facciata, la sicurezza e il benessere degli israeliani, sia in realtà la causa numero uno dell'insicurezza che i cittadini israeliani provano. L'unica prospettiva sensata è una di 180 gradi opposta a quella che il nostro governo sta cercando di promuovere. Loro vogliono l'escalation: noi vogliamo la de-escalation. Loro vogliono accrescere il progetto di occupazione nei territori occupati. Noi vogliamo smantellare gli insediamenti. Loro vogliono creare condizioni che rendano impossibile la creazione di uno Stato palestinese. Noi pensiamo che uno Stato palestinese sia necessario: per i palestinesi, per i loro diritti, per l'autodeterminazione nazionale, ma anche per la sicurezza e la protezione degli ebrei israeliani. Per questo proponiamo un'equazione diversa da quella dell'establishment politico israeliano. La libertà palestinese e la sicurezza ebraica non sono in contraddizione, ma si completano a vicenda. Non si può avere sicurezza per il popolo ebraico all'interno di Israele mentre al popolo palestinese è negata la liberazione nazionale. E vale anche il contrario. Non si può raggiungere la liberazione nazionale del popolo palestinese senza affrontare le profonde paure e traumi vissuti dagli ebrei israeliani. Quindi la prospettiva che noi di Standing Together cerchiamo di proporre è quella di affrontare la questione della sicurezza degli ebrei e quella dell'autodeterminazione dei palestinesi come due aspetti complementari, parte dello stesso processo».
Ma nell'equazione non si può dimenticare l'esistenza di Hamas. Se la sanguinaria organizzazione islamista dovesse rimanere al potere a Gaza, come potrebbe Israele sentirsi al sicuro? Il popolo palestinese sarà in grado di lasciarsi Hamas alle spalle per abbracciare la pace?
«Lo slogan secondo il quale la guerra terminerebbe con lo sradicamento di Hamas non è fondato sui fatti. Hamas è un'ideologia, un'idea. E non si può sconfiggere un'idea solo con la forza militare. È necessario sostituirla con un'idea diversa. Il progetto politico di Hamas, del resto, trae forza dalla frustrazione dei palestinesi. Quando gli accordi di Oslo furono firmati all'inizio del 1990 – e c'era una prospettiva futura, lo Stato palestinese sembrava a pochi passi dalla realizzazione – il sostegno per Hamas tra i palestinesi nei territori occupati era ai minimi storici. Lo dimostrano i sondaggi d'opinione pubblica raccolti all'epoca. Ma gli ostacoli posti negli anni seguenti al prosieguo del processo di Oslo, insieme alla dura realtà della vita sotto occupazione, hanno ridato impulso a forze reazionarie di estrema destra come Hamas. Abbiamo bisogno di riavvolgere questo film. Dobbiamo renderci conto che se Hamas è una forza politica costruita sulla base della frustrazione e della disillusione, per indebolirla dobbiamo rimettere all'ordine del giorno l'idea di negoziati per la creazione di uno Stato palestinese, accanto a Israele. Non a caso, in questi mesi di guerra, i bombardamenti sui civili hanno portato 3.000 nuove reclute nell'ala militare di Hamas. Dopo la fine della guerra, con un accordo di cessate il fuoco e un accordo sugli ostaggi, ciò che serve è la ripresa dei negoziati, con l'attuazione di nuove soluzioni in linea con il diritto internazionale. Questo processo indebolirà Hamas più degli attacchi aerei. Questo è l'unico modo per fermare l'organizzazione».
In tutto ciò, abbiamo solo accennato alla posizione di Netanyahu e del suo governo.
«L'attuale governo israeliano è il più bellicoso, nazionalista e razzista della storia di Israele. E badi bene, il nostro Paese, storicamente, ha avuto una buona dose di governi bellicosi, nazionalisti e razzisti. Il nostro Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, ad esempio, è un fanatico di estrema destra. Proviene da un partito che un tempo era incredibilmente marginale nella politica israeliana (il Kach, ndr), basato sull'ideologia del kahanismo. Il razzismo del suo fondatore, il rabbino Meir Kahana, era talmente osceno che – unico deputato negli anni Ottanta – ogni volta che saliva sul podio della Knesset, il parlamento israeliano, per tenere un discorso, tutti gli altri membri, compresi quelli del partito di destra Likud, uscivano dall'aula e lui teneva i suoi discorsi a un plenum vuoto del parlamento. Oggi, 40 anni dopo, il kahanismo è stato normalizzato e vediamo un partito kahanista, Potere ebraico (Otzma Yehudit, ndr), che per la prima volta fa parte della coalizione al potere in Israele e per la prima volta ha dei ministri, Ben-Gvir appunto, in governo. Questo è uno sviluppo molto pericoloso. E gli esempi sono diversi. Possiamo citare Bezalel Smotrich, leader del partito Sionismo religioso: anch'egli un fanatico razzista. Insieme a Netanyahu, sono oppositori dell'idea di Stato palestinese e sostenitori, invece, del progetto di guerra perpetua. Non sono questi i politici che andranno mai a concludere un accordo diplomatico con i palestinesi. Pertanto, il raggiungimento della pace israelo-palestinese passa attraverso il rifiuto di questo governo e lo svolgimento di nuove elezioni. Se queste dovessero essere indette oggi, ci dicono i sondaggi, i partiti di destra sarebbero destinati a perdere l'attuale maggioranza di 64 seggi su 120 nella Knesset, fermandosi a un numero compreso fra 42 e 54. Si tratta di un risultato ben lontano dal minimo per costruire una coalizione in grado di governare: sarebbe la fine di Netanyahu. Ecco perché il premier si oppone tanto all'idea dell'accordo sugli ostaggi. Se in caso di cessate il fuoco chi sostiene la guerra dovesse lasciare la coalizione, la sua maggioranza cadrebbe e sarebbe necessaria una nuova elezione. E per Netanyahu perdere il potere sarebbe una sconfitta non solo politica, ma totale. Accusato di corruzione, è imputato in un processo dai ritmi incredibilmente lenti: privato del suo ruolo, si ritroverebbe subito di fronte alla giustizia. Ecco perché Netanyahu è il principale ostacolo all'avanzamento verso un accordo sugli ostaggi che ponga fine a questa guerra. E le famiglie delle persone rapite da Hamas lo sanno: per questo dal mese di marzo si sono unite ad altri movimenti e organizzazioni di opposizione che chiedono elezioni anticipate».
Secondo molti analisti, Netanyahu starebbe tergiversando sull'accordo così da attendere i risultati delle elezioni presidenziali americane, in novembre, nella speranza che una vittoria di Trump possa aiutarlo a rimanere in sella.
«Sono d'accordo con questa analisi. Netanyahu sta scommettendo su una vittoria di Trump alle elezioni statunitensi perché condividono la stessa visione del mondo. Nella precedente presidenza, Trump ha appoggiato molte delle aspirazioni di Netanyahu nei confronti del Medio Oriente e dei palestinesi. A inizio 2020, ad esempio, Trump ha annunciato il cosiddetto "accordo del secolo", ovvero un piano per l'annessione parziale, da parte di Israele, dei territori palestinesi occupati e la normalizzazione dei rapporti con varie monarchie arabe del Golfo, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain. I cosiddetti accordi di Abramo – questo il nome del patto – non sono serviti a promuovere la causa della pace in Medio Oriente, ma piuttosto a mettere fuori gioco la questione palestinese. Hanno permesso a Israele di costruire relazioni diplomatiche, economiche e di difesa con altri Paesi arabi della regione, allineati con gli Stati Uniti, mantenendo in stand-by la questione palestinese. Netanyahu, insomma, spera in un ritorno del suo affidabile partner. A differenza degli altri premier israeliani – che sapevano lavorare sia con i democratici sia con i repubblicani statunitensi – Netanyahu è legato a doppio filo al Grand Old Party e si sente personalmente vicino alla loro politica. Non ci aspettiamo cambiamenti drastici nelle politiche e nelle iniziative prese dal governo israeliano prima delle elezioni presidenziali americane di novembre: Netanyahu attenderà di vedere se la scommessa ha pagato».
Forse vale la pena concludere sulla Cisgiordania. In questi mesi, e nelle ultime settimane in particolare, le violenze nella West Bank sono aumentate a dismisura. L'accordo di pace deve tenere conto anche della delicata situazione negli altri territori palestinesi occupati?
«Assolutamente sì. Mentre tutti gli occhi sono puntati su Gaza, fra bombardamenti indiscriminati di strutture civili e una devastante crisi umanitaria, vale la pena notare che anche in Cisgiordania la violenza è aumentata dal 7 ottobre. Quasi 700 palestinesi hanno perso la vita, qui, a causa della violenza dei soldati o dei coloni. La scorsa settimana, un'attivista statunitense che protestava in Cisgiordania con gli agricoltori palestinesi, cercando di difenderli dagli attacchi dei coloni, è stata colpita a morte dall'esercito israeliano. Anche una ragazzina palestinese di 13 anni è stata uccisa, probabilmente da coloni israeliani che, difesi dai soldati, hanno fatto irruzione nel suo villaggio, incendiandone le case. Mentre il governo israeliano conduce una guerra nella Striscia di Gaza, i coloni, con l'aiuto dell'esercito, stanno scatenando l'inferno anche in Cisgiordania, prendendo di mira innocenti e aumentando la tensione e la violenza. I già citati Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich vivono entrambi in insediamenti illegali in Cisgiordania. In effetti, entrambi si considerano rappresentanti del progetto di insediamento. Il loro obiettivo principale è quello di aumentare il numero di coloni ebrei israeliani che vivono in profondità nel territorio palestinese in Cisgiordania, e addirittura costruire nuovi insediamenti nella Striscia di Gaza. Membri del partito di Smotrich parlano apertamente di ciò, e affermano che la guerra a Gaza ha dato loro l'opportunità di reinsediarsi nella Striscia. Nella loro visione messianica e fondamentalista del mondo, la guerra, invece di essere una catastrofe, è un'opportunità. Non si preoccupano delle vittime palestinesi. Non importa nemmeno delle vittime israeliane. Per loro è un'opportunità di creare le condizioni per la loro visione, reinsediare tutta la terra e sottomettere ulteriormente il popolo palestinese, con trasferimenti di massa e così via. I problemi che riguardano la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, così come quelli di Gerusalemme Est, anch'essa occupata militarmente nella guerra del 1967, sono tutti collegati tra loro. Nessuno di essi può essere risolto come una questione separata dalle altre, perché non è un problema di territori, ma di persone. Mentre la destra tenta di allontanarli o di cacciarli con la forza, i realisti devono rendersi conto che i palestinesi nel nostro Paese sono milioni. Nessuno di loro andrà da nessuna parte. Così come non andranno da nessuna parte i milioni di ebrei israeliani. Qualsiasi tentativo di affrontare seriamente le preoccupazioni politiche e di sicurezza delle persone che vivono in questo Paese deve prendere questo concetto, l'esistenza di due popoli in questa striscia di terra, come punto di partenza. Il movimento per la pace israeliano deve spingere innanzitutto su questa idea».