L’intervista

I Savoia rivogliono i loro gioielli, ma perché proprio adesso?

Dopo un tentativo di mediazione fallito, gli eredi di Umberto II sono pronti a fare causa al governo italiano per riavere brillanti e perle - Il tesoro è custodito in un caveau della Banca d’Italia dal giugno 1946 - Ne parliamo con il giornalista e scrittore Enrico Mannucci
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Giorgia Cimma Sommaruga
29.01.2022 11:49

Quei gioielli devono tornare a casa. Lo dicono, senza troppi giri di parole, il principe Vittorio Emanuele di Savoia e le principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice, eredi di Umberto II. Si tratta dei gioielli della Corona, custoditi in un caveau della Banca d’Italia dal giugno 1946 o, se preferite, dalla nascita della Repubblica. Una richiesta formale era già stata inoltrata lo scorso novembre, è notizia di questi giorni – invece – il tentativo di mediazione, fallito, fra Emanuele Filiberto, rappresentante di casa Savoia, e la stessa Banca d’Italia. E così, i quattro eredi faranno causa al governo italiano. Il tesoro sarebbe formato da 6.732 brillanti e 2 mila perle, di diverse misure, montati su collier, orecchini, diademi e spille varie. Per capirne di più ci siamo rivolti a Enrico Mannucci, giornalista e scrittore, autore del libro Casa Savoia.

Signor Mannucci, che idea si è fatto della vicenda?
«Attorno a questa faccenda c’è una gran confusione. I dati riguardanti brillanti e perle risalgono a una perizia del 1976, affidata a Bulgari, che valutò i gioielli attorno ai 2 miliardi di lire. Circa 10 milioni di euro attuali. Tuttavia, aste recenti hanno dimostrato il forte interesse per gioielli, diciamo, con una storia alle spalle. Questo complica, e di molto, le cose. C’è poi un’altra premessa da fare».

Quale?
«Questa non è una disputa privata. Non si può risolvere, come nel caso di qualcuno che muore lasciando dei debiti, trovando un accordo fra eredi e creditori. Le eredità di casa Savoia sono sempre state complicate. Di più, hanno fatto parte nel corso degli anni di dispute e baratti molto complessi. Gli inglesi, ad esempio, non confiscarono mai i 3 miliardi di lire che i Savoia depositarono in Inghilterra quando i due Paesi erano in guerra. Mussolini stesso, a mo’ di battuta, disse che i Savoia finanziavano gli inglesi. Ma quei soldi, beh, non vennero confiscati nemmeno dall’Italia alla fine della guerra e con l’avvento della Repubblica. Diverse faccende, per contro, rientravano nelle trattative per riportare la salma del re in Italia o per far cadere il divieto di ingressi agli eredi. In generale, parliamo di trattative complesse fra gli eredi Savoia e lo Stato italiano. Perciò, anche il caso dei gioielli non può essere trattato con semplicità. Non come una vertenza fra privati, quantomeno».

In che stato versano i gioielli?
«Non si sa. C’è vaghezza anche su quali è quanti siano questi gioielli, al di là della perizia. C’è la testimonianza di Luigi Einaudi, allora governatore della Banca d’Italia, con i riferimenti al celebre diadema della regina Margherita poi indossato dalla regina Elena. Ecco, secondo alcune ricostruzioni il diadema sarebbe stato scomposto. Lo stesso dicasi per la collana di perle. E dobbiamo distinguere altresì fra i gioielli per le funzioni regali, quelli della Corona, e quelli donati ai Savoia o acquistati. La casa si rivolgeva frequentemente alla gioielleria Musy di Torino».

A livello simbolico il patrimonio è sicuramente importante. Ma proprio per ciò che rappresentano questi gioielli hanno anche un forte valore materiale

Come detto, valore simbolico e valore materiale in questo caso si mischiano.
«A livello simbolico il patrimonio è sicuramente importante. Ma proprio per ciò che rappresentano questi gioielli hanno anche un forte valore materiale, difficile da calcolare».

Perché i Savoia rivogliono questi gioielli? La scelta del timing, pensando al Giorno della Memoria e alle responsabilità della casa, ma anche all’elezione del presidente della Repubblica, è davvero casuale?
«Perché li rivogliono? L’ha detto Maria Gabriella: appartengono alla casa. E lo diceva Einaudi. Le ragioni sono evidenti».

L’avvocato che cura gli interessi dei Savoia, Sergio Orlandi, ha spiegato all’agenzia di stampa italiana ANSA: «A differenza degli altri beni, questi gioielli non sono mai stati confiscati e sono rimasti pendenti. Perciò devono essere restituiti». Significa che i Savoia hanno buone chance di riavere il bottino?
«Qui torniamo al punto iniziale: le vicende dei Savoia non si dirimono facilmente in sede giuridica. Sono state oggetto di trattative, di do ut des in qualche modo. Mi sorprende, un pochino, che la richiesta provenga da tutti e quattro gli eredi, in passato spesso in rapporti molto tesi».

Significa che l’ipotesi di rimettere le mani su un tesoretto è abbastanza per mettere da parte antichi dissapori?
«C’è da dire una cosa: le rotture più profonde riguardavano la titolarità di Vittorio Emanuele quale erede legittimo. C’era stato il presunto disconoscimento di Umberto, Amedeo sosteneva di essere il rappresentante del casato e ad un certo punto poteva contare sul sostegno di Maria Gabriella. Morto Amedeo, questa contesa non ha più senso di essere. L’interesse economico è probabilmente più forte e ha saputo fare da collante. Al netto di quello che diceva Bulgari, questo è un bel tesoretto: da Christie’s, volendo, lo batti per molti soldi. C’è evidentemente necessità di quantificare».

Gabriella, quando la intervistai nei dintorni di Ginevra, mi disse di tenere molto a quelle pietre. Ne parla anche in un libro che ha curato con Stefano Papi

Si è parlato, però, anche di esporre al pubblico questi gioielli. Come se i Savoia volessero fare un regalo all’Italia. Niente asta, dunque? A patto ovviamente di mettere di nuovo le mani sul tesoretto.
«Gabriella, quando la intervistai nei dintorni di Ginevra, mi disse di tenere molto a quelle pietre. Ne parla anche in un libro che ha curato con Stefano Papi. È sempre stata appassionata. Può darsi, allora, che oltre all’interesse economico e a quello, diciamo così, espositivo ci sia anche un valore affettivo e simbolico».

Perché nel 1946 i gioielli non furono confiscati?
«Perché, nel passaggio dalla monarchia alla Repubblica, in quei frenetici giorni di giugno molte cose non vennero definite, altre vennero chiarite in seguito e altre ancora ad oggi rimangono aperte. Anche la formula con cui Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, descrisse la consegna era piuttosto vaga, ambigua. Si parlava di distribuire i gioielli a chi di diritto».

Ecco, chi aveva e ha diritto?
«Parrebbe la Repubblica Italiana, ma non so come potrebbe andare a finire. La posizione dei Savoia mi pare comunque debole, perché tanto per cominciare i gioielli fisicamente sono in possesso dello Stato italiano. E poi la casa non ha più niente da proporre in cambio. Se parliamo di do ut des, cosa possono offrire i Savoia? Non c’è baratto qui, come c’è stato tante altre volte in passato».

Se rappresentasse lo Stato lei cosa farebbe?
«Proporrei di inventariare questi gioielli. E poi di metterli in vetrina a Torino o a Venaria Reale. Forse se ne sarebbe dovuto occupare Draghi quando era governatore della Banca d’Italia. E a tal proposito, visto cosa è successo con l’elezione del presidente della Repubblica il tempismo dei Savoia potrebbe non essere casuale».