L'analisi

Il 2024 è stato un anno drammatico dal punto di vista climatico

I dati convergono: le temperature globali continuano a crescere - Decisivi l’aumento delle emissioni di gas serra e El Niño - Sale il contributo delle rinnovabili, ma le fonti fossili restano stabili - Sugli eventi più devastanti c’è l’impronta del cambiamento climatico
©AP Photo/Mike Carlson
Ferdinando Cotugno
02.01.2025 06:00

Abbiamo appena archiviato il 2024, un anno drammatico dal punto di vista climatico, segnato infatti da alcuni eventi estremi terrificanti, che hanno avuto un costo notevole in termini sia di vite umane sia dal punto di vista finanziario. L’approccio della politica, stando alla COP29 tenutasi a Baku, appare nonostante tutto ancora piuttosto tiepido.

Il 2024 verrà catalogato come l’anno più caldo?

Sia secondo i dati del servizio europeo Copernicus che dell’Organizzazione meteorologica mondiale, il 2024 è stato globalmente l’anno con le temperature più alte da quando abbiamo rilevazioni scientifiche accurate. Il record precedente era del 2023, e prima ancora del 2016. Secondo gli scienziati queste anomalie sono dovute all’effetto combinato dell’aumento delle emissioni di gas serra e al fenomeno ciclico naturale di El Niño. Il 2024 è anche il primo anno che il pianeta ha trascorso stabilmente sopra 1,5°C di aumento della temperatura rispetto all’era pre-industriale, considerato dalla scienza come ultima soglia climatica sicura. Quella soglia non può ancora dirsi superata definitivamente, ma secondo l’Emission Gap Report 2024 delle Nazioni Unite al momento siamo su una traiettoria che rischia di portarci molto oltre, in una forchetta tra +2,6°C e +3,1°C entro questo secolo.

Quali sono stati gli impatti della crisi climatica nel 2024?

Secondo l’annuale rapporto di Christian Aid, i dieci eventi estremi peggiori del 2024 hanno avuto un costo finanziario cumulato di 230 miliardi dollari, e nessuno tra i peggiori è costato meno di quattro miliardi. Il conto finale più salato è toccato agli Stati Uniti, che hanno avuto i tre disastri peggiori (gli uragani Milton ed Helene arrivati in autunno e le tempeste di inizio anno) e quattro dei peggiori dieci (va sommato l’uragano Beryl, che ha fatto gravi danni anche nei Caraibi). È stato un anno tremendo anche per l’Europa, sconvolta a settembre dalla perturbazione Boris nella sua parte centrale e orientale e dalle alluvioni in Baviera e dalla catastrofe di Valencia. Gli altri eventi estremi più gravi sono state le alluvioni dello stato del Rio Grande do Sul, in Brasile, il tifone Yagi nel Sud-Est asiatico e le inondazioni in Cina, che hanno causato 315 morti. Per tutti questi eventi, gli studi del World Weather Attribution hanno trovato le «impronte» del cambiamento climatico, che ha reso questi eventi più probabili e più intensi e ne ha accorciato i tempi di ritorno.

Come sta andando la transizione globale?

Le rinnovabili continuano a crescere, a un ritmo che potremmo definire furibondo, ma le emissioni di gas serra non stanno comunque riuscendo a calare. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) nel 2024 nel mondo abbiamo aggiunto circa 660 GW di potenza tra eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Il problema è che queste rinnovabili non stanno sostituendo le fonti fossili, quelle che causano il riscaldamento globale, ma si stanno aggiungendo a esse: la quota di carbone, petrolio e gas nei sistemi energetici continua a essere stabilmente intorno all’80 per cento. Secondo la IEA, con questo ritmo il consumo di combustibili fossili potrebbe iniziare a scendere in modo robusto soltanto negli anni ‘30, troppo tardi per i nostri obiettivi climatici di azzeramento delle emissioni. Per rispettarli, le emissioni di quei consumi dovrebbero già star calando del 5 per cento ogni anno. Al contrario nel 2024 le emissioni di gas serra sono ancora aumentate, anche se «solo» dello 0,8 per cento.

Che cosa è stato ottenuto alla COP29 sul clima di Baku?

L’incontro annuale dell’ONU sui cambiamenti climatici quest’anno si è tenuto in Azerbaijan e aveva come obiettivo di stabilire il cosiddetto New Collective Quantified Goal, l’obiettivo finanziario globale - previsto dall’accordo di Parigi sul clima firmato nel 2015 - aumentando la cifra messa sul piatto dai Paesi industrializzati (maggiormente responsabili del riscaldamento globale) per aiutare il resto del mondo a fare la transizione e adattarsi ai nuovi scenari climatici. Quella cifra era ferma a 100 miliardi di dollari complessivi. La richiesta dei Paesi del Sud globale era di portarla a 1.300 miliardi di dollari all’anno, la soglia che giudicavano congrua per essere messi in condizione di affrontare l’emergenza climatica. Ne hanno ottenuti soltanto 300, una cifra giudicata molto più bassa rispetto alle esigenze e all’impatto dell’emergenza climatica. Inoltre, l’obiettivo è arrivare a questi 300 miliardi di dollari soltanto nel 2035, tra dieci anni, quando l’inflazione rischia di erodere parte del potere d’acquisto della cifra. Inoltre, questo obiettivo sarà composto da un mix di finanza pubblica e privata e sarà in buona parte fornito dalle banche multilaterali di sviluppo come la Banca Mondiale, della quale molti Paesi non si fidano e di cui chiedono una riforma.

Come sono andate le altre due COP, quella sulla natura e quella sulla desertificazione?

La COP16 sulla biodiversità si è tenuta a ottobre in Colombia, a Cali, e si è conclusa con un nulla di fatto sui punti più urgenti, che erano analoghi a quelli per il clima a Baku: trovare risorse finanziarie per combattere il collasso degli ecosistemi naturali, che si trovano in gran parte nei territori dei Paesi in via di sviluppo (e quindi con meno disponibilità economiche). Le questioni erano così urgenti che si è scelto di non aspettare una nuova COP sulla biodiversità, che si sarebbe tenuta tra due anni (quelle sulla natura sono infatti biennali) ed è stato convocato un nuovo round di negoziati nella sede della FAO a Roma il 25 febbraio 2025. Bisogna trovare il modo di mobilitare 200 miliardi di dollari all’anno per rispettare l’obiettivo globale di proteggere il 30 per cento di terre emerse e oceani entro il 2030. Entro quella data bisogna anche ridurre i sussidi pubblici dannosi per la natura di 500 miliardi di dollari all’anno. La COP16 sulla desertificazione si è invece svolta a dicembre in Arabia Saudita, è considerata la «cenerentola» delle conferenze ambientali dell’ONU, ma quest’anno si è presentata sulla scena con un obiettivo ambizioso: promuovere una lotta congiunta ai problemi del suolo, del clima e della biodiversità, facendo dialogare le diverse COP e convenzioni e superando l’approccio a silos che è stato usato negli ultimi trent’anni.

Alla COP16 sulla desertificazione si è parlato di siccità: quali nuovi dati sono emersi?

Il dato più importante emerso alla COP sulla desertificazione è il fatto che la siccità è un fenomeno gravissimo, ma ci sono cambi di ecosistema ancora più profondi e pericolosi. La siccità, per quanto impattante, è reversibile, mentre un’area globalmente più estesa dell’India negli ultimi trent’anni ha cambiato stato ecologico in modo permanente, trasformandosi da zona umida a zona arida. Oggi le zone aride sono arrivate a essere il 40 per cento delle terre emerse, e questo già escludendo l’Antartide dal conteggio. Per tre quarti della Terra, gli ultimi tre decenni hanno portato condizioni più aride che in passato. L’impatto è devastante anche dal punto di vista economico: in questo arco di tempo la desertificazione è costata all’Africa il 12 per cento del PIL, e questa perdita nei prossimi cinque anni salirà al 16 per cento, e sarà del 7 per cento per l’Asia.