Il punto

Il caso Renault in Russia: una lezione per le aziende straniere che vogliono fare ritorno

Due, in particolare, le domande pensando a un eventuale accordo di pace che ponga fine alla guerra in Ucraina: in che modo il Cremlino ripristinerà la fiducia degli investitori occidentali e, parallelamente, come faranno gli stessi investitori a recuperare i beni perduti?
© AP/YURI KOCHETKOV
Marcello Pelizzari
28.02.2025 09:30

I marchi occidentali, dunque, torneranno in Russia? La domanda, con l'intensificarsi delle iniziative diplomatiche a guida statunitense e pensando a un eventuale cessate il fuoco in Ucraina, se non addirittura a un accordo di pace, è tornata di stretta, strettissima attualità. Nel balletto di dichiarazioni fra Mosca e Washington, nello specifico, due temi – legati fra loro – hanno fatto capolino: la revoca delle sanzioni nei confronti della Federazione Russa e il ritorno delle aziende statunitensi (alcune, invero, non se ne sono mai andate) nel Paese. Detto ciò, come sottolinea Reuters due domande rimangono inevase: in che modo il Cremlino ripristinerà la fiducia degli investitori occidentali e, parallelamente, come faranno gli stessi investitori a recuperare i beni perduti?

Alcuni esperti, al riguardo, sottolineano che il caso Renault potrebbe fare scuola. Riassumendo al massimo: il colosso francese aveva dapprima sospeso le sue attività in Russia e, in seguito, venduto le proprie quote in AvtoVAZ – il più grande costruttore di automobili russo – al cosiddetto NAMI, acronimo di Central Scientific Research Automobile and Automotive Engine Institute (NAMI), una sussidiaria del Ministero russo dell’Industria e del Commercio. La fabbrica di Mosca era invece stata venduta alla città. Qualora volesse ritornare in Russia, parola dell'amministratore delegato di AvtoVAZ Maxim Sokolov, Renault dovrebbe sborsare 1,29 miliardi di dollari. Inciso: aveva ceduto le sue attività per la cifra simbolica di un rublo. 

Le cose, di per sé, non sono andate benissimo neppure a chi è rimasto. E, dall'oggi al domani, si è visto sfilare la propria attività. Sempre Reuters, a tal proposito, cita l'intervento in seno a Glavprodukt, produttore di cibo in scatola, lo scorso ottobre. Tre uomini dell'Agenzia federale per la gestione delle proprietà statali, Rosimushchestvo, sono entrati nella sede moscovita dell'azienda, che fa capo a Universal Beverage, ribadendo che Glavprodukt e altri beni sarebbero stati posti sotto la gestione temporanea dello Stato russo. Altri marchi stranieri, Carlsberg su tutti, hanno subito un trattamento simile. Glavprodukt, tuttavia, è stata la prima azienda di proprietà statunitense a finire sotto il controllo, forzato, del Cremlino.

La gestione temporanea è uno dei tanti modi attraverso cui lo Stato russo ha cercato di appropriarsi, o si è appropriato, dei beni stranieri. Non senza conseguenze: Leonid Smirnov, fondatore di Glavprodukt, ha spiegato a Reuters che i nuovi dirigenti non solo hanno stravolto radicalmente l'azienda ma sono stati protagonisti altresì di un calo delle vendite. Di più, secondo Smirnov il controllo non sembrerebbe affatto temporaneo. Mosca, pensando in particolare allo sforzo bellico in Ucraina e alla necessità di convogliare sempre più risorse nella Difesa, sta agendo con questo stratagemma anche aziende e beni «locali». Lo scorso gennaio, ad esempio, un importante marchio di cereali e l'aeroporto Domodedovo di Mosca sono stati ceduti allo Stato. Tornando ai marchi statunitensi, da tempo la Russia ha approvato una legge apposita tramite cui, alla bisogna, può identificare le proprietà statunitensi in Russia e utilizzarle come risarcimento per le perdite legate ai beni russi congelati all'estero. Secondo Reuters, questa possibilità potrebbe presto essere estesa ai beni di altre nazioni occidentali. 

La gestione temporanea, ancora, è servita al Cremlino per forzare vendite a prezzi vantaggiosi. Carlsberg, per dire, nel giugno del 2023 aveva accettato di vendere la sua quota in Baltika Breweries. Tre settimane più tardi, per contro, la Russia era intervenuta tramite decreto presidenziale per porre le attività del marchio danese in controllo temporaneo. Lo scorso dicembre, Carlsberg ha finito per vendere la sua partecipazione a due dipendenti di lunga data a un prezzo decisamente inferiore rispetto al reale valore di mercato: 320 milioni di dollari. Una mossa, questa, obbligata. A maggior ragione se consideriamo che, sin dal primo giorno di gestione temporanea, Carlsberg aveva perso – concretamente – il controllo operativo. Così l'amministratore delegato del colosso, Jacob Aarup-Andersen: «A tutti gli effetti, avevamo già perso le nostre risorse».

Smirnov, che vive a Los Angeles, teme un destino simile. Ovvero, che la gestione temporanea sia una manovra per costringerlo a vendere a un prezzo stracciato. Di qui le due domande, rimaste inevase: in che modo il Cremlino ripristinerà la fiducia degli investitori occidentali e, parallelamente, come faranno gli stessi investitori a recuperare i beni perduti qualora si arrivasse a un accordo di pace fra Russia e Ucraina?