Il fenomeno

«Il ciclismo su Netflix? È la disciplina che più si presta al racconto»

Intervista a Paolo Carelli, professore di Teoria e tecnica dei media e Storia e linguaggi del broadcasting all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia
Massimo Solari
26.07.2022 06:00

Professor Carelli, dopo i successi di The Last Dance e Drive to Survive, Netflix ha messo gli occhi sul Tour (o viceversa). È sorpreso?

«Per nulla sorpreso. Uno degli eventi sportivi più importanti a livello mondiale ha sposato la piattaforma globale per eccellenza. Che da tempo oramai ha puntato su una diversa rappresentazione di questo mondo. Lo sport è soprattutto evento live, aggrega i grandi pubblici così. E non è un caso che i giganti dello streaming se ne siano accorti: penso in particolare ad Amazon, entrata con decisione in questa battaglia. In assenza dei diritti tv per le dirette - Netflix resta un’eccezione in tal senso -, le piattaforme si erano già orientate sul racconto dello sport in chiave documentaristica. Ma non tanto nella sua accezione tradizionale, cioè la narrazione della memoria, delle gesta epiche del passato. Quanto sviscerando il presente, il dietro le quinte. Con la vita del campione o della squadra di turno svelate mentre si compiono. La grande novità portata da Netflix &Co è stata questa. E, appunto, che lo facciano ora con una delle discipline - il ciclismo - che più si presta alla drammaturgia, segna il compimento di una grande trasformazione».

 

Raccontare di sport, dunque, senza però restare in superficie...

«Sovente, nei documentari, lo sport ha costituito l’occasione per parlare d’altro: di un contesto storico, di costume, della cultura di un Paese. Questo per dire che ci troviamo di fronte a una forma antichissima del racconto audiovisivo. Va da sé, aggiornato in chiave contemporanea. Nei casi in questione a prevalere è la dimensione sportiva vera e propria. Con le sue mille sfaccettature, in particolare quelle più intime. Il caso di The Last Dance è poi emblematico per un’altra ragione. La sua messa in onda - anticipata sapientemente da ESPN - ha coinciso con il primo lockdown, quando gli eventi sportivi erano stati azzerati. Al di là dei grandi titoli, comunque, Netflix è popolato da una miriade di contenuti più specifici e da punti di vista diversi. Non per forza l’esaltazione della vittoria, ma altresì la riflessione attorno alla sconfitta e la vita ordinaria dei perdenti. Penso a Losers. O a Sunderland ‘Til I Die».

 

Perché il ciclismo dovrebbe rapire il cuore di un ventenne?

«È vero. Se penso al pubblico italiano, l’audience è garantita da appassionati di una certa età. Che non accede, o lo fa meno, a Netflix. L’operazione, dunque, è interessante. Anche perché il ciclismo è lo sport che più di tutti presenta gli elementi del racconto classico.Parliamo di una gara a tappe, segnata da fatica, ascese, cadute e, più in generale, da immagini di forte epica. Basti pensare al momento simbolo di questo Tour. Nonostante le macchie lasciate lungo il percorso, insomma, la disciplina si presta a una narrazione i cui livelli di intensità e drammaturgia non sono raggiungibili da altri sport. Che poi vi sia una motivazione legata al bisogno di rifarsi una verginità, una sorta di “sport-washing”, beh non va escluso».

 

Docu-serie sportive: vi sono altre tendenze?

«Se con Drive to Survive e il Tour ci si muove da premesse di realtà, negli ultimi mesi c’è stato pure un interessante spostamento verso la fiction. Su Amazon ha fatto molto bene la serie argentina su Maradona, con attori che personificano i vari personaggi. Su Sky, uno dei titoli di punta è Winning Time, dedicato alla dinastia dei Lakers e pure interpretata da attori. A fianco del racconto documentaristico classico, innovato nei modi citati sopra, si tenta di battere altre strade. Di disegnare affreschi d’epoca. Molte di queste serie e sceneggiature sfruttano lo sport come pretesto per indagare altri aspetti, spesso la relazione tra personaggi. Di recente ci ha provato anche Netflix, con Il Divin Codino, che un film su Roberto Baggio e il rapporto con il padre. Non sul calcio».

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