«Il confine fra Italia e Svizzera? Raramente è stato una barriera culturale e sociale»

La stabilità politica e la crescita economica, il principio di neutralità e la tradizione umanitaria fanno della Svizzera un Paese affidabile e rispettato nel mondo. «La cassetta degli attrezzi di un diplomatico elvetico è meglio assortita e ordinata, ma soprattutto è complementare a quella di molti Paesi, Italia compresa, e istituzioni partner con i quali condividiamo gli obiettivi universalmente riconosciuti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite». Lo dice Monika Schmutz Kirgöz, ambasciatrice svizzera in Italia, classe 1968, basilese d’origine ticinese, di stanza a Roma ma con trascorsi a Tel Aviv, Beirut e Istanbul nella sua lunga e brillante carriera. A lei va il Premio Gazzetta Diplomatica «Ambasciatore dell’anno 2023» conferito da una giuria internazionale per essersi distinta nella sua attività in Italia al fine di migliorare le relazioni bilaterali. La cerimonia di premiazione si è tenuta lunedì pomeriggio al Circolo degli Esteri di Roma dove sono stati assegnati i riconoscimenti intitolati alla memoria di Giovanni Jannuzzi, esponente di spicco della diplomazia italiana.
Ambasciatrice
Schmutz Kirgöz, come ha accolto la notizia del premio «Ambasciatore dell’anno
2023» in Italia?
«Questo premio innanzitutto
rappresenta un grande onore non solo per me, ma per tutto il mio team per il lavoro svolto
dall’ambasciata e dalla Svizzera sul territorio italiano. Nel Belpaese c’è un Consolato generale di Svizzera a
Milano e ci sono dieci Consolati onorari. Siamo una rete abbastanza presente e facciamo
molto per esserlo. Alcuni miei colleghi di altri Paesi dicono che siamo quasi iperattivi. Nella
nostra realtà quotidiana di diplomatici elvetici dobbiamo fare un po’ di più per avere contatti e per
ricordare a tutti che la Svizzera c’è ed è importantissima. In Italia siamo molto presenti nelle Università e cerchiano un dialogo intenso con i giovani. Tutti questi fattori hanno probabilmente
contribuito alla decisione di conferirci il premio».
Nel bilancio
dell’attività svolta di recente nell’ambito dei rapporti tra Svizzera e Italia
di quale risultato va più fiera?
«Grazie
al lavoro individuale e congiunto svolto, perché bisogna ricordare che
un’Ambasciata è composta
da una squadra di molte persone, sono particolarmente fiera di aver organizzato
a ottobre
dell’anno scorso il forum italo-svizzero a Zurigo seguito in novembre dalla
visita di Stato del presidente
della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, nella Confederazione, avvenuta
proprio nell’anno di presidenza del consigliere federale Ignazio Cassis. Avere
un presidente della Confederazione di madrelingua italiana ha reso l’occasione ufficiale
ancora più speciale. In Ambasciata a Roma, da quando mi sono insediata due anni
fa, abbiamo avuto quasi 20 visite di consiglieri federali e questo la dice
lunga su quanto l’Italia sia importante per la Svizzera».
Quale è il supporto della Svizzera
all’Italia nella gestione dei flussi migratori?
«La
Svizzera sta facendo molto per sostenere l’Italia nel fronteggiare la
migrazione. Finanziamo un
progetto nel Belpaese, del valore di 727.000 franchi, che garantisce la
presenza di specialisti dell’OIM
(Organizzazione internazionale per le migrazioni) che assistono le autorità
italiane nella
prima accoglienza e nella registrazione dei migranti, contribuendo così ad
accelerare le procedure
di asilo. Oltre a questo progetto a breve termine, c’è l’obiettivo di
intensificare la cooperazione
in materia di migrazione nell’ambito del Contributo svizzero ad alcuni Stati
membri dell’Unione Europea. La Svizzera ha destinato 20 milioni di franchi a un
programma di sostegno alla gestione
della migrazione con l’Italia che nello specifico si occupa delle strutture di
accoglienza e dei servizi
di assistenza per i minorenni stranieri non accompagnati. Se l’Italia
rafforzerà la sua governance
della migrazione, anche il nostro Paese ne trarrà beneficio. Inoltre, questa
forma di collaborazione
bilaterale offre una piattaforma per scambi più stretti e regolari nel campo
della migrazione.
I negoziati per un accordo bilaterale sono attualmente in corso. La Svizzera è consapevole
del fatto che gli arrivi in Italia sono aumentati considerevolmente di recente
e riconosce
il sostegno dato dalla popolazione locale e dalle autorità italiane
all’accoglienza e all’assistenza
dei migranti».
Cosa ha comportato l’uscita della
Svizzera dalla black list fiscale italiana del 1999?
«Per
la Svizzera questo si traduce in un ulteriore importante passo in avanti nelle
relazioni fiscali tra
i due Paesi e costituisce un nuovo traguardo che si aggiunge a quelli ottenuti
in questo ambito negli
ultimi anni. La cancellazione dall’elenco del 1999 avrà effetto a partire dal
1° gennaio 2024
e la conseguenza di maggior impatto sarà l’eliminazione dell’onere
amministrativo aggiuntivo
per le persone residenti in Italia che desiderano trasferire il proprio
domicilio in Svizzera.
Tra le novità positive posso affermare che, dopo svariati anni, la Svizzera non
figurerà più finalmente su alcuna lista nera di un Paese vicino».
Può dare un’idea dei rapporti tra
Italia e Svizzera tradotta in numeri?
«Un
dato che spicca su tutti è la frontiera condivisa di quasi 800 chilometri, la più lunga
per entrambi i due
Paesi. Più di 51.000 cittadini svizzeri risiedono attualmente in Italia, mentre
gli italiani in Svizzera
sono oltre 332.000 e rappresentano il maggior gruppo di popolazione straniera
residente nella Confederazione
Svizzera. A questi bisogna aggiungere altri 300.000 cittadini circa che possiedono
la doppia cittadinanza italiana e svizzera. Le 3.000 imprese svizzere presenti
nella Penisola
impiegano quasi 120.000 persone in Italia contribuendo così in misura notevole
al valore
aggiunto delle imprese estere in Italia. La Svizzera è stabilmente il quarto Paese di destinazione per
l’export italiano: conta come Cina, Brasile e India insieme. Inoltre, la
Svizzera e l’Italia scambiano
beni e servizi per un miliardo di euro a settimana. Come è comprensibile, circa
il 40% degli
scambi si concentra nelle regioni a cavallo del confine. In 10 anni, l’Italia
ha totalizzato quasi
40 miliardi di euro di surplus negli scambi commerciali con la Svizzera e gli
investimenti svizzeri
in Italia ammontano a oltre 20 miliardi di euro. L’Italia è molto amata dai
circa 3 milioni di
turisti svizzeri che la visitano ogni anno, generando un indotto di circa 2,5
miliardi di euro nel Belpaese».


Come è cambiato il senso della
frontiera nel tempo?
«Il
concetto di confine tra Italia e Svizzera ha da sempre avuto peculiarità
specifiche che ne hanno connotato
l’evoluzione nei secoli. Spesso, in particolare dall’inizio del XVI secolo, è
stato una barriera
più che altro politica, ma raramente culturale o sociale. La gente ha continuato
a spostarsi
tra le regioni di frontiera: la loro quotidianità ha sempre prevalso sulle
contingenze storiche
e sulle convenzioni. Vedo la linea di confine come un’opportunità: come dico
spesso, è una linea che
invece di dividerci ci unisce. Dal secondo dopoguerra, l’integrazione europea
ha compiuto passi
da gigante e la Svizzera ha saputo cogliere le circostanze favorevoli che ne
sono derivate, senza
tuttavia diventare Stato membro dell’UE a tutti gli effetti».
Quale immagine della Svizzera oltre
gli stereotipi desidera portare nel mondo?
«Alcuni
stereotipi tipici del nostro Paese riguardano la piazza finanziaria, il
cioccolato e gli orologi,
ma la Svizzera è molto più di questo. Si tratta di un Paese estremamente
innovativo e multiculturale,
che volge lo sguardo verso il futuro e collabora strettamente con i suoi
partner, tra cui
l’Italia. Quando si pensa alla Svizzera, intesa in senso politico, si fa
riferimento anche alla sua
neutralità e alla lunga tradizione umanitaria, rafforzata anche dalla presenza
del Comitato internazionale
della Croce Rossa a Ginevra, però la stessa è conosciuta anche come la patria
di investimenti
attrattivi, specialmente quelli ad alto valore aggiunto, tipici dei settori
legati all’innovazione
e alle nuove tecnologie. I nostri istituti di ricerca e di formazione
accademica, come
le scuole politecniche di Zurigo e Losanna e le università, godono di un’ottima
reputazione in
Italia e nel mondo».
Quale è il valore aggiunto della
neutralità svizzera nella politica internazionale e nella vita diplomatica?
«La
neutralità costituisce uno dei fondamenti della politica estera svizzera e
oserei dire che fa parte
dell’identità elvetica e viene sostenuta da larga parte della popolazione. In
virtù di questo principio,
il Paese non può partecipare a conflitti armati né stringere alleanze militari.
La comunità internazionale
ha formalmente riconosciuto la Svizzera come Stato neutrale nel 1815. Questo
strumento che portiamo nel bagaglio della diplomazia svizzera ci permette
virtualmente di
avere un dialogo con tutte le parti e di poter quindi offrire una serie di
garanzie a tutela di autorevolezza
e di imparzialità nei confronti dei propri interlocutori: questo ha reso
possibili le mediazioni
di successo avute negli anni passati. Si pensi per esempio alla recentissima mediazione
avvenuta nel quadro del processo di pace in Colombia: la Svizzera è diventata
Stato garante
nei negoziati tra il Governo e i ribelli dell’Estado Mayor Central de las
FARC-EP».
Come ricorda la visita ufficiale in
Libano nel 2018 di Alain Berset, allora Presidente della Confederazione, mentre lei era
ambasciatrice della Svizzera a Beirut?
«C’era
questo desiderio del presidente Alain Berset di incontrare tutti i capi
religiosi del Libano e volevamo
coinvolgere tutti gli interlocutori perché avevano tanto da dire. Un
ambasciatore di un Paese
europeo mi disse di scordarmi di fare una cosa simile perché sarebbe stata
un’impresa impossibile.
Invece ci siamo riusciti proprio per la credibilità che deriva dalla neutralità
di una Svizzera
che parla con tutti».
Come ha fronteggiato l’emergenza
dell’esplosione di 3.000 tonnellate di nitrato d’ammonio a Beirut che travolse l’ambasciata
svizzera e le provocò anche delle ferite? Nonostante tutto la Svizzera fu il primo Paese
a mandare aiuti in Libano…
«In
virtù della sua lunga tradizione umanitaria, la Svizzera, tramite il Dipartimento federale
degli affari esteri, possiede un Corpo d’aiuto umanitario efficiente che si
mobilita rapidamente al
fine di condurre azioni preventive o di assistere le popolazioni bisognose
durante e dopo conflitti e
catastrofi all’estero. Vanta un’ampia tipologia di interventi, tra i quali
proprio le azioni di ricerca
e salvataggio intraprese in seguito all’esplosione nella capitale libanese o al
terremoto avvenuto
in Turchia all’inizio di quest’anno. Io stessa ho ricevuto aiuto costante
durante quei difficili
momenti in Libano. Non solo la Svizzera è stato il primo Paese a dare supporto
a Beirut, ma
siamo rimasti fino a quando due ospedali e due scuole sono state interamente
ricostruite. Non dimentichiamo
che eravamo nel periodo della pandemia da Covid. Questo mi rende molto fiera del
nostro Paese».


C’è un luogo del cuore dove ritorna
sempre?
«Sono
cresciuta con la mia famiglia nel Cantone di Basilea Campagna. Sono anche
attinente di Chiasso
e la mia casa in Svizzera si trova nella zona di Lugano, in cui ritorno spesso
perché apprezzo
il paesaggio naturale ricco di verde. Con il Ticino ho un legame profondo. Un
altro luogo
dove torno volentieri è Istanbul».
Che cosa ha significato entrare in
diplomazia quando ancora era una carriera quasi preclusa alle donne?
«Negli
ultimi vent’anni il numero di donne nella diplomazia svizzera è aumentato
costantemente perché
rappresentano il 36% del corpo diplomatico e il 21% dei capi missione. Inoltre,
dei 5 posti
di Segretario di Stato della Confederazione, 4 sono ora occupati da donne. Oggi
su 7 Consiglieri
federali, 3 sono donne. La Svizzera è stato l’ultimo Paese europeo ad aprire il
suo Dipartimento degli
affari esteri alle donne, nel 1956, e da allora sono stati fatti molti
progressi. Per molto tempo
è stato raro trovare diplomatiche ai più alti livelli. Tuttavia la prima
ambasciatrice svizzera donna
è stata proprio la ticinese Francesca Pometta, negli anni Ottanta, che
rappresentò la Svizzera
in Italia. C’è anche una sala all’interno di Palazzo federale Ovest, la sede
del DFAE
svizzero a Berna, dedicata a lei. Inoltre, quando finalmente il servizio
diplomatico è stato aperto alle donne, queste non avevano le stesse opportunità
degli uomini. Fortunatamente, e grazie agli sforzi congiunti, questa tendenza
si sta invertendo. Nella mia esperienza, mi sono capitate situazioni, talvolta
divertenti, che riflettono una distanza da colmare ancora presente. Anni fa
quando avevo mio figlio in fasce ero vista come una
mamma che lavora anomala. Ho combattuto molte battaglie e sono felice di averle
fatte quando penso
che forse oggi sono fonte d’ispirazione per le nuove generazioni».
Come si concilia il ruolo di
ambasciatrice, moglie e madre?
«Chi
intraprende la carriera diplomatica sceglie una professione, ma anche uno stile
di vita. Ci viene
assegnato un nuovo incarico ogni tre o quattro anni. Il delicato equilibrio tra
vita professionale e familiare
viene stravolto: deve essere ricostruito in un altro Paese, spesso molto
diverso dal nostro,
e in una nuova casa. Questo richiede grande spirito di adattamento da parte dei
nostri cari, che ci accompagnano
ai quattro angoli del mondo. Inoltre, la linea che divide la sfera privata da
quella pubblica
e professionale è molto sottile: come ogni persona politicamente esposta, anche
i diplomatici
devono prestare cautela alle azioni prese a titolo privato. Penso
all’esplosione a Beirut
nell’agosto 2020 che per fortuna non ha coinvolto i miei famigliari che in quel
momento erano assenti».
Come vive Roma, la città eterna
dove anche il Borromini che giunse dal Ticino ha lasciato il segno?
«Di
Roma amo i colori a partire dal cielo sotto il quale tutto appare più bello.
Ogni volta che passo
davanti alle chiese di San Carlo alle Quattro Fontane, nel rione di Monti, o
alla Chiesa di Sant’Ivo
alla Sapienza, in zona Sant’Eustachio, realizzate dal Borromini nell’attuale
capitale italiana, rivivo
la magia dell’architettura barocca. Roma offre una varietà incredibile di
eventi culturali, di monumenti
e opere d’arte, è una città dove nei secoli si è declinata la costruzione della
bellezza sotto
molteplici aspetti. Ho il privilegio di vivere a Roma e di rappresentare la
Svizzera in una sede
ricca di storia come villa Monticello».
Lei è una poliglotta. In quale
lingua pensa e sogna?
«Parlo
tedesco, francese, italiano, inglese e turco, posso capire lo spagnolo, un po’
meno l’arabo e l’ebraico
e avevo – tanto tempo fa – imparato bene l’indonesiano, ma sogno ancora in
basilese, in Schwyzerdütsch, la mia Muttersprache, pardon la mia lingua
madre, quella della mia
gioventù».