Il curioso caso di Vladimir Putin
Settimane fa, al summit di Samarcanda, Vladimir Putin si è riscoperto fragile. Arrivato in Uzbekistan con la speranza di incassare il sostegno degli altri leader presenti, capi di Stati più o meno storicamente allineati al Cremlino, il presidente russo non ha saputo raccogliere grandi endorsement. Anzi. Tra chi ha parlato, sono spiccate le voci del premier indiano Modi e del presidente turco Erdogan, che (meno timidamente di altri) hanno voluto invitare Mosca, sostanzialmente, a smetterla con i propri capricci guerrafondai. La misura è colma, anche per chi aveva, in parte, tollerato sin qui le mire russe in Ucraina. Di fronte ai severi giudizi stranieri, la risposta di Putin era risultata illuminante, nella sua infantilità: «È colpa di Kiev: rifiuta i negoziati». Tutto qui? Nel cercare di fornire una (improbabile) giustificazione alle proprie azioni, il leader di una tale superpotenza non riesce ad andare oltre a un «non siamo noi i cattivoni»? Se la situazione non fosse tragica, l'atteggiamento allora tenuto da Putin avrebbe potuto far pensare a quello di un bullo che, a scuola, viene ripreso dal preside con una tirata d'orecchie. Contrito e dispiaciuto davanti all'autorità. Ma ancora più violento e crudele, poi, nei confronti di chi ha osato fare la spia. Tornato dalla città uzbeca, storico centro della via della Seta, Putin si è infatti dimostrato tutto fuorché pentito. E ha invece premuto sull'acceleratore: l'annessione delle quattro regioni ucraine e le conseguenti minacce sull'uso di armi nucleari.
Un po' come Benjamin Button, ma in salsa moscovita, il presidente russo ha seguito negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi, un percorso di maturazione inverso. Già all'inizio del suo primo mandato (2000-2004), Putin aveva attirato critiche nazionali e internazionali per l'autoritarismo e l'inosservanza dei diritti dell'uomo mostrati nella gestione della crisi cecena, per fare un esempio. Contemporaneamente, tuttavia, l'uomo forte del Cremlino non aveva chiuso la porta all'Occidente e, pare ora impossibile, alla NATO. Come già fatto in precedenza dai suoi predecessori, Eltsin e prima ancora Gorbaciov, anche Putin ventilò la possibilità di un'adesione della Russia all'Alleanza atlantica. Di più: in un'intervista alla BBC, affermò di avere difficoltà a visualizzare la NATO come una forza antagonista: «La Russia fa parte della cultura europea. E non posso immaginare il mio Paese isolato dall'Europa e da quello che spesso chiamiamo il mondo civilizzato». Frasi da universi paralleli o giorno dei contrari, se rilette con occhi del 2022.
Vuoi per la diffidenza europea nei confronti di un vicino sempre misterioso e prepotente, vuoi per la sempre più impellente necessità, per Mosca, di agire sullo scacchiere mondiale in totale indipendenza, al dunque non si è mai arrivati. E invece di maturare, l'amicizia è marcita. Già nel 2009, l'allora inviato russo alla NATO, Dmitry Rogozin, aveva gentilmente risposto picche al nuovo suggerimento polacco di un'adesione russa all'Alleanza. «Le grandi potenze non si uniscono a coalizioni, ma creano coalizioni. E la Russia si considera una grande potenza».
La mania di grandezza fa brutti scherzi. Gli anni sono poi passati e al Cremlino, evidentemente, non hanno portato moderazione o maggiore razionalità. Oggi, 7 ottobre 2022, di anni Vladimir Putin ne compie 70. E, per il mondo, il personaggio non è mai stato più pericoloso. Chi può dirlo? In un'altra dimensione, oggi Putin avrebbe ricevuto gli auguri di centinaia di capi di Stato. Nella nostra, invece, a chiamarlo sono solo i generali dal fronte. Per lui, un compleanno in solitaria. Per i leader occidentali, la mancata possibilità d'unire l'utile al dilettevole nella classica tirata d'orecchie.