Usa 2020

«Il fascino delle elezioni USA, l’unico vero duello del mondo occidentale»

L’intervista ad Enrico Mentana sulle presidenziali americane ai tempi della pandemia: «Trump si è lasciato entrare il virus in casa, sul voto peserà la gestione della crisi. Biden è più omologato e rassicurante»
©AP Photo/Eugene Hoshiko
Michele Montanari
02.11.2020 06:00

Le elezioni presidenziali americane sono alle porte, mentre il coronavirus continua la sua corsa nel mondo. Anche lo scontro tra Donald Trump e Joe Biden dovrà fare i conti con la pandemia: l’atteso duello passerà in secondo piano? Ci sarà un minor coinvolgimento? Ne abbiamo parlato con il direttore del TG di LA7 Enrico Mentana.

Quanto sono coinvolgenti le elezioni presidenziali americane alle nostre latitudini?

«Sono molto coinvolgenti, per motivi evidenti. Intanto sono le uniche elezioni del mondo occidentale, il nostro mondo, che comportano in realtà la sfida tra due sole persone. È questo il vero fascino: si tratta di una sfida chiara e ovvia. Inoltre, nei momenti in cui la storia americana lo consente, è un testa a testa tra due figure completamente diverse, come in questo caso. Siamo alle prese con un personaggio estremamente divisivo ed esterno ai partiti come Donald Trump: potrei usare cinquanta aggettivi per descriverlo, ma ancora non basterebbero. E poi c’è Joe Biden, una figura molto più omologata e rassicurante, legata all’establishment, come era Hillary Clinton quattro anni fa. Si tratta dunque di sfide perfettamente visibili e molto chiare. Facilmente intelligibili, che non hanno bisogno di sofisticatezza o spiegazioni particolari».

Secondo lei un maggiore coinvolgimento delle persone può essere dovuto alla diffusione del web e dei social media?

«Non credo. Mi è capitato di seguire in passato diverse campagne elettorali: sono sempre state così. In Svizzera è ancora più facile percepire queste sfide, perché sono né più né meno che un referendum: l’elezione del presidente degli Stati Uniti di fatto è un referendum. Inoltre gli avversari sono spesso molto distanti tra loro. Pensiamo a George Bush padre e Bill Clinton, nel 1992: quella era una sfida tra l’eredità di Ronald Reagan e il nuovo corso democratico. Oppure il confronto tra George Bush figlio e Al Gore. È stato terribile: durò praticamente un mese, perché ci fu il ricorso per il voto della Florida. Abbiamo assistito alla Contrapposizione, con la C maiuscola. Senza contare poi Barack Obama e John McCain: due idee dell’America opposte, in uno scontro forte e appassionante. Tutto questo indipendentemente dall’uso dei nuovi canali su Internet, salvo il caso di Obama. È con lui che si entra nei social media, ma in un modo apparentemente virtuoso: la raccolta di fondi o il passaparola attraverso Fecebook. Questi sono appannaggio dell’era Obama, poi i social sono diventati un’altra cosa: più pervasiva e in molti casi più corrosiva. Con Trump per la prima volta osserviamo una campagna elettorale, e quattro anni alla Casa Bianca, in cui è proprio il presidente degli Stati Uniti il principale attore dei social media. Attraverso Twitter, Trump ha diviso, chiamato alle armi, criticato, corroborato, esaltato. Con lui e contro di lui si sono praticamente formati due eserciti di internauti. Oltretutto in alcuni casi sulla linea di confine della legalità».

I sondaggi danno favorito Biden, e i media tradizionali in gran parte lo appoggiano. Pensa che proprio il popolo dei social network, più vicino a Trump e più difficile da inquadrare, possa avere un qualche peso sulle elezioni?

«Trump è molto lontano da come si comporterebbe il 99% dei politici europei, quindi lo consideriamo una sorta di alieno. Ma non bisogna sottovalutare il fatto che l’America che lo vota non è quella imprevedibile dei social network. È semplicemente quella parte del Paese considerata meno “smart”, perché sfugge ai riflettori. Nella maggioranza assoluta non sta in California, nello Stato di New York, o nel Massachussets, dove prevedibilmente il Partito democratico prenderà una barca di voti. Questi spostano di molto il totale a livello nazionale, ma è già successo anche con Hillary Clinton: quattro anni fa, a pochi giorni dalle elezioni, tutti dicevano che era avanti nei sondaggi e che avrebbe vinto. Ed effettivamente vinse il voto nazionale, anche con un ampio margine, però il “gioco” degli Stati, quelli di cui parliamo meno, che meno conosciamo, che sono meno illuminati dai riflettori, quelli delle cittadine e non degli interessi economici e politici, cambiò l’esito. È quella America lì che sta con Trump, e gli porterà oltre il 40% delle preferenze. Non dobbiamo quindi pensare a quattro fessi che stanno sui social a farsi strumentalizzare da parole d’ordine farlocche. Ci sono due Americhe, una conservatrice e tradizionalista, laddove conservatrice non significa suprematisti o movimenti del genere, ma semplicemente chi vuole conservare il posto di lavoro industriale. C’è una questione operaia da tenere in considerazione, quella stessa che per esempio in Francia porta i dipendenti della Renault a votare per Marine Le Pen. A Detroit i lavoratori dell’industria dell’automobile votano soprattutto per Trump. Con i decenni si sono un po’ scompaginate una serie di idee più tipiche del mondo operaio».

La pandemia avrà un peso enorme sulle presidenziali. Trump è molto criticato per la gestione della crisi sanitaria, ma allo stesso tempo è guarito dal virus: potrebbe essere un’arma in più? Mi spiego, nell’immaginario americano è forte il concetto della superpotenza in grado di sconfiggere qualsiasi nemico: Trump può essere visto come uno che, con la guarigione, il nemico invisibile in fondo lo ha sconfitto?

«Sì, lo ha sconfitto, però lo ha lasciato arrivare in casa. Da questo punto di vista Trump ha nel coronavirus il suo tallone d’Achille, perché non ha dimostrato di essere un comandante in capo in grado di affrontare con credibilità questa guerra. È stato divagante nelle dichiarazioni. All’inizio rassicurante, in qualche modo sdrammatizzante rispetto ai rischi, ma poi, quando si è visto come stavano andando le cose, ha progressivamente cercato di cambiare. Basti pensare alla faccenda delle mascherine. Non ha dato un’idea di grandissima tenuta. La verità è che tutto si inquadra in una polarizzazione che c’è tra gli statunitensi, ossia i due grandi serbatoi di voto. È la parte fluttuante dell’elettorato che dirà “Trump mi ha sorpreso o mi ha deluso durante la pandemia”, ma questa parte è influenzata anche da altre questioni, come quella economica. Il coronavirus piuttosto influenza le elezioni in un altro senso: il voto postale sarà molto più forte quest’anno. Milioni di cittadini hanno già votato, quindi anche se consideriamo i dibattiti come scontri importanti, molta gente aveva già dato la sua preferenza prima del duello del 23 ottobre scorso».

Le notizie sull’emergenza coronavirus sembrano essersi prese tutta la scena, relegando in secondo piano gli altri fatti di attualità: la crisi sanitaria distoglierà l’attenzione anche dalle presidenziali?

«Non credo ci sarà meno coinvolgimento da parte del pubblico. Penso che l’interesse ipertrofico sulle notizie legate alla pandemia sia ovvio: è riferito a qualcosa che, a memoria d’uomo, cioè nell’ultimo secolo, non è mai successo. Guerre mondiali a parte, non è accaduto nulla che abbia così condizionato la vita degli esseri umani. Quindi è evidente. Pensiamo alla Svizzera, che in questi giorni sta registrando numeri record di contagi: posso ben capire che con preoccupazione, interesse e passione, i ticinesi, appena si alzano la mattina, vadano sui siti a cercare informazioni sulla situazione nel loro Paese. È inevitabile che sia così: se c’è una cosa che cambia di minuto in minuto è proprio l’evoluzione della pandemia, attraverso numeri, prese di posizione e decisioni. E la gente non aspetta che esca il quotidiano del giorno dopo: cerca informazioni a ciclo continuo sul web. Detto questo, le elezioni negli Stati Uniti si tengono nonostante la pandemia. Il vero problema è che tante cose non avvengono più del tutto. Limitando di molto le attività sociali e la circolazione dei cittadini, la pandemia fa accadere meno cose: ci sono molti meno fatti di cui parlare. E dunque quando c’è altro da seguire, la gente, non dico che trovi sollievo, ma trova nuovamente qualcosa a cui appassionarsi. E questo vale soprattutto per le elezioni americane: avendo quell’aspetto di sfida quasi sportivo, saranno seguitissime in tutto il mondo ».

La «maratona Mentana» è ormai una sorta di evento nell’evento. Come si prepara una diretta del genere?

«Non si prepara, si segue qualcosa in evoluzione, che per definizione non è prevedibile. Qui ovviamente lo schema è semplice: o vince uno o vince l’altro. Ci sono inviati, immagini, ospiti. Ma la verità è che va seguito il flusso delle notizie, senza scalette precostituite che ti ingabbierebbero. Si improvvisa, questo è l’unico ingrediente di riuscita di una diretta così lunga».

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