L'approfondimento

Il fragile pluralismo russo degli anni Novanta

È un processo a sé stante, che attraversa la società intrecciandosi con la caduta delle ideologie storiche e il sorgere dei centri di potere politico-economico che ruotano intorno agli oligarchi
Luca Lovisolo
08.10.2024 15:00

Durante gli anni Novanta, nella Russia postsovietica, a fianco della faticosa costruzione di una moderna economia di mercato e di un nuovo quadro istituzionale, si svolge un processo che spesso viene considerato accessorio, rispetto all’apertura del Paese verso Occidente: la fine del Partito comunista sovietico e il progressivo sorgere del pluralismo politico. È un processo a sé stante, che attraversa la società intrecciandosi con la caduta delle ideologie storiche e il sorgere dei centri di potere politico-economico che ruotano intorno agli oligarchi.

Pur indebolito da molti limiti, il nascente sistema pluralista della Russia funziona: le maggioranze in Parlamento si formano e si smontano in elezioni considerate generalmente corrette; il presidente Eltsin deve spesso «coabitare» – secondo il modello francese – con forze parlamentari che si oppongono alla sua politica e tentano per ben tre volte di destituirlo. Nonostante i mugugni e le delusioni per il disordine sociale ed economico di quegli anni, la popolazione russa ha a disposizione un discreto ventaglio di forze politiche, per indicare la direzione da imprimere al governo del Paese e per esprimere protesta. Il dibattito pubblico si svolge in un panorama mediatico non perfetto ma ancora piuttosto libero. Il sistema scricchiola, ma regge fino alla fine degli anni Novanta. Con le prime elezioni parlamentari sotto la regia di Vladimir Putin, nel 2003, gli spazi di libertà si chiudono. In Parlamento i partiti restano formalmente distinti, ma oggi sostengono tutti la linea del presidente.

Il partito-Stato: il ruolo del Partito comunista sovietico

Il Partito comunista dell’Unione sovietica non ha una relazione normale con il resto delle istituzioni. La prima Costituzione sovietica del 1924, nata all’ombra di uno Lenin ormai malato, non fa esplicito riferimento al ruolo del Partito. La nuova Costituzione del 1936, voluta da Stalin, all’articolo 126 cita per la prima volta la centralità del Partito comunista, che costituisce «l’avanguardia dei lavoratori nella lotta per la costruzione di una società comunista e rappresenta il nucleo di tutte le organizzazioni dei lavoratori» [Unione sovietica, Costituzione 1936, art. 126].

Più esplicita è la Costituzione del 1977, frutto della riforma di Leonid Brežnev: senza giri di parole, al famigerato articolo 6 il testo definisce il Partito comunista come «forza di governo e di indirizzo della società sovietica, nucleo del suo sistema politico e delle organizzazioni dello Stato e della società» [Unione sovietica, Costituzione 1977, art. 6].

L’iscrizione al Partito: un obbligo nascosto

Contrariamente a quanto talvolta si crede, in Unione sovietica non vi è obbligo formale di iscrizione al Partito: in uno Stato così configurato, però, i bespartijnye («senza partito») non hanno accesso a posti dirigenziali e sono esclusi dalla vita pubblica persino nel mondo dell’arte e dello spettacolo. Una volta iscritti, è richiesta fedeltà totale: il dissenso è punito con l’esclusione dal Partito, che significa il bando da ogni attività professionale.

Nel 1983, il celebre tenore Josif Kobzon entra in polemica con i dirigenti per aver cantato una canzone ebraica durante un ricevimento a cui presenziava una delegazione araba, che protesta sonoramente. Kobzon, fino a quel momento un idolo canoro incontrastato del regime, viene convocato dai vertici ed escluso dal Partito: «La decisione – ricordava – fu confermata dal Comitato distrettuale e da quello cittadino. Significava che tutte le porte si chiudevano: la televisione, la radio, le tournee all’estero. In una parola, ti toglievano l’ossigeno». Kobzon viene riammesso un anno dopo, ma sulla sua tessera è registrata una nota di demerito.

L’appartenenza al Partito è un timone attraverso il quale lo Stato sovietico controlla ogni figura che ha qualche forma di influenza sulla società: la paura di essere esclusi basta a convincere a non dissentire.

Quanto Partito e Stato si sovrappongono

Le strutture del Partito si sovrappongono a quelle dello Stato già nella configurazione dei vertici politici. Il Partito comunista è diretto da «segreterie» che duplicano i ministeri del governo. I funzionari a capo delle segreterie («segretari») contano più dei ministri, poiché questi ultimi non possono far altro che eseguire gli ordini della segreteria corrispondente.

A capo del Partito, in conseguenza, siede un «segretario generale» che assume anche la carica di capo dello Stato, saldando al vertice l’identificazione fra Partito e istituzioni. Per questo motivo, in Unione sovietica, non è esistito un «presidente» – carica che viene introdotta solo nel 1990 da Michail Gorbačëv, consapevole che la sovrapposizione Stato-Partito blocca ogni tentativo di riforma. Gorbačëv è il primo e ultimo a rivestire la nuova carica di presidente: l’Unione sovietica si scioglie un anno dopo.

La prima opposizione e le contraddizioni di Gorbačëv

Eppure, Gorbačëv resta sino alla fine Segretario generale del Partito comunista. Quando istituisce il Congresso dei deputati del popolo, una sorta di parlamento che deve portare nelle istituzioni più rappresentatività sociale, fa in modo che il Partito vi mantenga la maggioranza.

Nonostante ciò, una prima opposizione, germe di un pluralismo politico in Unione sovietica, si forma proprio nel Congresso: è il «Gruppo transregionale di deputati» che si coagula intorno a Boris Eltsin, Jurij Afanas’ev e Andrej Sacharov, il fisico e Premio Nobel per la pace (1975) rimasto lunghi anni in esilio a causa del suo attivismo politico. Con loro, altre figure che premono per riforme più decise, mentre la Perestrojka di Gorbačëv comincia a stagnare.

Se si cerca un atto che segni sul piano legale la fine del monopolio comunista in Unione sovietica, è la decisione di riformare il già citato articolo 6 della Costituzione: la riforma matura all’interno del Congresso dei deputati e viene promossa con caparbietà sin dal 1989 da Sacharov. Nel febbraio 1990, da una manifestazione di ampiezza mai vista per le vie di Mosca, si levano altre voci che chiedono l’abolizione del ruolo-guida del Partito. A marzo, il Plenum del Comitato centrale non abolisce ma rimaneggia l’articolo 6. La nuova formulazione resta alquanto bizantina, ma segna la fine del monopolio comunista.

Eltsin: la spallata morale contro il Partito

Sul piano morale, invece, il colpo di grazia alla centralità del Partito è l’uscita dai suoi ranghi di Boris Eltsin, nel luglio 1990. Appena eletto a capo della Russia, ancora repubblica sovietica, Eltsin riconosce che la sua funzione esige indipendenza da tutte le forze politiche e rinuncia alla tessera. Lo comunica dinanzi al 28.mo Congresso del Partito e subito esce dalla sala: un cameraman coglie l’attimo, così la sequenza di Eltsin che esce, di schiena, tra due ali di delegati rumoreggianti, passa alla storia. Ricorda Eltsin, intervistato da Andrej Maksimov: «Attraversai la sala senza guardare né di qua né di là e mi avviai all’uscita […] C’era chi fischiava, chi rumoreggiava, chi applaudiva». È un momento di enorme tensione emotiva: l’appartenenza al Partito era un credo religioso; l’uscita, un’abiura morale, più che una scelta politica.

Il Partito comunista sovietico si scioglie nel 1991, con uno strascico giudiziario fra deputati che contestano la procedura di dissoluzione e accusano di malversazioni il suo ultimo Segretario generale, Michail Gorbačëv.

Nascono nuovi partiti, risorge anche quello comunista

Il Partito comunista rinasce nel 1993 come Partito comunista della Federazione russa, guidato da Gennadij Zjuganov. La nuova formazione non è mai riuscita a convincere del tutto, sulla dichiarata frattura con il passato.

Intanto, in Russia nascono nuovi partiti, legati alle figure pubbliche emergenti dalle ceneri dell’Unione sovietica: merita citarne almeno qualcuno. Il Partito liberaldemocratico, guidato da Vladimir Žirinovskij, è in realtà una formazione di estrema destra che si fa interprete di sopite nostalgie imperiali e nazionaliste. Jabloko («La mela»), partito fondato con altri da un protagonista degli anni Novanta, l’economista Grigorij Javlinskij, propone modelli liberali.

Una menzione speciale merita Edinstvo, formazione animata dall’oligarca Boris Berezovskij insieme a un giovane Sergej Šojgu, che diventerà ministro della difesa russo. Con la salita al potere di Vladimir Putin, nel 1999, Edinstvo cambia nome in Edinaja Rossija (Russia unita) e diventa il partito del presidente.

Boris Nemcov e la fine del pluralismo

L’evento-simbolo che sotterra il pluralismo russo riconquistato dopo la fine del monopolio comunista sovietico è un omicidio: nei primi anni Duemila, Boris Nemcov, che era entrato in Parlamento con il partito liberale Unione delle forze di destra, rimane l’unico politico di spicco a muoversi contro Vladimir Putin. Ha il carisma e l’esperienza di governo che possono farne un vero anti-Putin. Nel 2014 si oppone alla guerra della Russia in Ucraina. Viene ucciso il 27 febbraio 2015, a Mosca, a due passi dal Cremlino.

Da quel momento, tutta la politica russa è allineata a Putin: resistono Aleksej Naval’nyj e pochi altri, che agiscono più come attivisti che come politici; oggi sono emigrati, incarcerati o morti. La Russia torna al monopolio politico di memoria sovietica, camuffato da un pluralismo di facciata. I diversi nomi dei partiti in Parlamento sono un villaggio Potëmkin dietro alle cui facciate si cela una democrazia in macerie.

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per leggere la seconda puntata clicca qui. Per leggere la terza puntata clicca qui. Per leggere la quarta puntata clicca qui. Per leggere la quinta puntata clicca qui. Per leggere la sesta puntata clicca qui. Per leggere la settima puntata clicca qui. Per leggere l'ottava puntata clicca qui.