Il mondo attende Israele: «La risposta all'attacco iraniano definirà il conflitto»
Come spiegare il funzionamento di una reazione a catena? Fra gli esempi più calzanti, quello del domino è particolarmente facile da evocare mentalmente. Una tessera cade, urtandone un'altra che, a sua volta, va giù, trascinandone con sé una terza. E una quarta, e una quinta. È, a grandi tratti, lo stesso processo verificatosi nell'ultimo anno in Medio Oriente, una regione passata da un'escalation all'altra senza, tuttavia, rispettare la rassicurante linearità del classico effetto domino. Ramificata, la crescita esponenziale della catena di eventi militari minaccia di raggiungere proporzioni fuori scala, con Iran e Israele ormai sull'orlo della guerra aperta. Si fermerà mai il domino? Ne parliamo con Paolo Capitini, generale dell'Esercito italiano ed esperto di scienze strategiche e storia militare.
Dialogare con i cannoni
«Possiamo colpire qualsiasi punto del Medio Oriente: chi non lo ha capito lo farà presto». Con queste parole il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (IDF), Herzi Halevi, ha affermato mercoledì che Tel Aviv risponderà all'attacco missilistico iraniano avvenuto il giorno prima. Teheran, lo ricordiamo, ha lanciato martedì un vasto attacco missilistico contro Israele le cui conseguenze – grazie anche all'ormai celebre sistema di difesa israeliano Iron Dome – sembrano essere state molto limitate. Un'offensiva spuntata, insomma, simile a quella avvenuta in aprile, quando l'Iran aveva preteso di rispondere a precedenti azioni di Israele, un raid su Damasco nel quale era stato ucciso il leader dei pasdaran Mohammad Reza Zahedi. Pochi, allora, i danni riportati da Tel Aviv che, a sua volta, aveva risposto con un'operazione modesta, un attacco alla base militare iraniana situata nella città di Esfahan.
Questa volta, benché le premesse siano simili – le Guardie rivoluzionarie iraniane dichiarano di aver agito per vendicare l'uccisione dei leader di Hezbollah e Hamas, Hassan Nasrallah e Ismail Haniyeh –, le conseguenze potrebbero essere molto diverse. Israele starebbe infatti pianificando una durissima ritorsione: tra le opzioni più accreditate paiono esserci il bombardamento dei siti nucleari iraniani o l'attacco agli impianti petroliferi di Teheran. La prima si è scontrata con l'opposizione di Biden e degli Stati Uniti, mentre la seconda è oggetto di «discussione» fra i due Paesi alleati.
«Si tratta di possibilità», comincia Capitini. «Gli obiettivi di valore sono una miriade, dentro e fuori l'Iran. Pensiamo ad esempio alle basi iraniane in Siria o in Iraq settentrionale». Insomma, una risposta a Teheran non passa necessariamente dal bombardamento di infrastrutture critiche: «La chiave di lettura sulle dimensioni di questo conflitto l'avremo dopo la risposta israeliana. In Occidente tendiamo a parlare delle due opzioni più pericolose che, qualora dovessero verificarsi, segnalano la volontà di Israele di spingere la guerra a un livello superiore. Ma non è detto sia questa la volontà di Tel Aviv». L'attacco condotto dall'Iran, sottolinea Capitini, è del resto stata un'azione «limitata e molto attenta. Teheran ha lanciato pochi missili rispetto alle proprie potenzialità, il 98% dei quali in grado di essere bloccati dalla difesa aerea israeliana». E quel 2%? «Potrebbe essersi trattato, se è vero quanto affermato dall'Iran, di missili ipersonici», dieci volte più veloci del suono e molto difficili da intercettare: «Per quelli non c'è scudo che tenga». Dopo l'attacco, l'IDF ha ammesso che alcuni vettori sono stati in grado di penetrare la difesa antiaerea colpendo basi militari israeliane, senza tuttavia causare gravi conseguenze. Ma non è chiaro se sia colpa, appunto, di missili ipersonici. Anzi, Israele ha smentito quanto riportato da media iraniani, che attestavano l'utilizzo di armi ipersoniche nel recente attacco: «L'apparato di difesa non è a conoscenza del fatto che l'Iran possieda questo tipo di missile».
Ipersonico o meno, il messaggio lanciato dal regime degli Ayatollah, secondo l'esperto di strategia, è chiaro: «L'Iran vuol far capire di essere in grado di colpire, davvero, Israele. Ora bisogna vedere quale sarà la risposta di Israele in questo dialogo. È una definizione buffa, però è questa la situazione: fra potenze ci si parla per via diplomatica, con un bicchiere di champagne, o a cannonate. Iran e Israele in questo momento, stanno ancora parlando». E parlare conviene: «L'esperimento di nazioni fallite, nella regione, c'è già stato e non ha portato a nulla di buono per nessuno. Penso che Israele abbia tutto l'interesse, in questo momento, più che a ribaltare il regime iraniano, a incoraggiarne un cambiamento. Una risposta flessibile all'attacco missilistico potrebbe, ad esempio, incoraggiare la parte più moderata della leadership di Teheran a mettere in moto una possibile transizione». Il processo, secondo Capitini, potrebbe già essere in corso. «Nel 2020 l'uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani, leader dei pasdaran legato a Hezbollah. E poi, recentemente, la morte del presidente Ebrahim Raisi». Elementi della leadership iraniana più intransigente che hanno lasciato il posto a capi, spiega l'esperto, più malleabili. «Sembra quasi che una manovra di sostituzione lenta sia già in atto, il tutto mentre Israele opera per far retrocedere di rango il terrorismo nella regione, entrato sempre più negli apparati statali». Organizzazioni di guerriglieri, spiega Capitini, sono meno pericolose di quelle politiche. «In un colpo solo, un Iran più collaborativo, con la ripresa degli Accordi di Abramo e l'indebolimento di movimenti come Hamas o Hezbollah, destabilizzanti per i governi di tutto il Medio Oriente. L'Iran moderato, in cambio, riceverebbe, ad esempio, qualche allentamento nelle sanzioni che da decenni lo stritolano: una merce di scambio funzionale». Ma la teoria regge? «La prova del nove sta, appunto, nell'annunciata rappresaglia di Israele. Se Tel Aviv dovesse optare per la linea dura, andando a distruggere impianti di arricchimento dell'uranio o i principali pozzi di petrolio, l'ipotesi verrebbe a cadere». In quel caso, per davvero, il conflitto entrerebbe in una nuova, imprevedibile fase. «Ma si tratterebbe di una guerra totale che metterebbe in discussione la leadership politica dell'intera regione».
Nucleare e servizi segreti
Con Capitini parliamo poi della questione atomica. Quello fra Israele e Iran è un conflitto tra potenze nucleari? «Gli israeliani non hanno mai ammesso di essere in possesso di bombe atomiche, ma è un fatto generalmente riconosciuto». E l'Iran? «Ambisce a un maggior ruolo regionale. Vicina non solo a Israele, ma anche a India e Pakistan – altri Paesi dotati dell'arma –, Teheran potrebbe avere interesse nel diffondere l'idea di essere in possesso di un ordigno nucleare, così da acquisire rilevanza». In casi del genere, evidenzia Capitini, «conviene prepararsi all'ipotesi peggiore, e cioè che l'Iran sia già vicino al conseguimento di questa tecnologia militare. Ma Israele ha i suoi interessi nell'avvicinare la scadenza». Certo è che costruire un'arma di questo tipo non è esattamente un processo discreto. Possibile che tutto ciò sia fatto alle spalle dell'intelligence dello Stato ebraico? «Quanto avvenuto in Libano con i cercapersone di Hezbollah mostra la capacità di pervasione dei servizi segreti israeliani. Pare veramente improbabile che la creazione, da parte dell'Iran, di una bomba atomica colga di sorpresa il Mossad».
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Il CdT aveva intervistato Capitini un anno fa, due giorni dopo il sanguinoso attacco di Hamas. Anche allora, il generale aveva sottolineato le capacità dei servizi segreti israeliani, definendo la possibilità che non si fossero accorti dei preparativi nella Striscia, «dell'addestramento dei miliziani, del traffico di materiali» necessari per l'operazione, una «scorciatoia intellettuale». L'esperto, oggi, conferma l'impressione a caldo. «Sono ancora convinto che i segnali siano stati colti e trasmessi lungo la catena di comando, ma che – arrivati sul tavolo di chi deve prendere decisioni –, siano stati ignorati. I vertici dell'intelligence e dell'esercito israeliano sono tutti di formazione europea o americana e vedono il mondo attraverso la lente occidentale, un occhio economico. L'analisi era: "A Hamas non conviene farlo, ci rimetterebbe soldi e il governo su Gaza"». La lettura occidentale, tuttavia, «è stata smentita dai fatti. Per questo si sta valutando l'inserimento, nelle posizioni apicali, di qualcuno che comprenda scale di valori e mentalità non europee».
La questione russa
Intanto, un attore rimane nell'ombra. La Russia, da un paio d'anni, si è fatta sempre più vicina al regime di Teheran. Complice la guerra in Ucraina – per la quale l'Iran ha fornito a Mosca i propri droni kamikaze Shahed – gli scambi di armi e tecnologia fra i due Paesi sono diventati frequenti. Che probabilità ci sono che, in caso di aggressione totale di Israele, la Russia intervenga in nome dell'alleato, magari unendo i fronti dei due conflitti? «Il multipolarismo di questo mondo è ottenuto tramite vie pacifiche o con la violenza. Stiamo assistendo a un riposizionamento delle sfere di influenza anche attraverso qualche prova di forza, ma non solamente attraverso di esse. La Russia, già in difficoltà in Ucraina, potrà dare qualche aiuto, ma stiamo parlando di atti più simbolici che pratici. Parliamo di immagini satellitari, dati d'intelligence e così via. Ma uno scenario che vede Mosca entrare apertamente in campo – causando in reazione l'intervento statunitense – mi pare davvero improbabile. I governi agiscono su base razionale, di convenienza e opportunità. Tanto verrà rivelato dalle prossime azioni di Israele». Ma se l'interpretazione di Capitini dovesse essere sbagliata? Se si andasse oltre al dialogo con i cannoni? «Vorrebbe dire che qualcuno ha deciso di essere abbastanza forte da poter reggere una guerra di anni, una guerra totale. Ma si tratta di un errore. Le guerre iniziano sempre con una cattiva valutazione o delle forze proprie o delle forze dell'avversario. È sempre stato così».