Il panda è salvo, «ma tutti gli altri?»

«Mai dire no al panda», recitava uno spot diventato virale una decina d’anni fa. E chi ha la forza di negare qualcosa a questi simpatici animali?
Teneri e rotondetti, i panda giganti fanno perdere la testa a grandi e piccini. Un fattore, quello estetico, probabilmente tra i motivi che hanno spinto la Cina a un forte impegno nella salvaguardia del plantigrado, per anni a rischio estinzione. Ora non più: proprio ieri il Paese asiatico ha annunciato che decenni di sforzi sono stati premiati, con il panda che finalmente entra nella lista delle specie «solamente» in stato di vulnerabilità. Mossa che segue, seppur a distanza di cinque anni, quella dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), che nel 2016 aveva rimosso l’urside dalla lista degli animali a rischio. Ma come si è arrivati a questo successo? E come proseguirà la sfida in futuro? Ne parliamo con Roberto Cazzolla Gatti, professore associato all’Istituto di Biologia della Tomsk State University, direttore e coordinatore scientifico del Master in biodiversità nello stesso ateneo e autore del volume «Cina: culla dei panda e dell’Oriente».

Lo spot
I progressi
Negli anni ’70 la Cina ha dato il via a un progetto di grande portata per aumentare il numero di panda giganti, specie allora rappresentata soltanto da un migliaio di esemplari.
«Il Paese ha investito molto nei decenni, sia dal punto di vista economico sia da quello mediatico, sostenuto dall’affetto della popolazione mondiale nei confronti della specie», spiega Cazzolla Gatti.
Tutti amano i panda, dicevamo. E la Cina ne ha fatto più che una propria mascotte: lo ha trasformato in un vero e proprio tesoro nazionale.
«Negli ultimi anni si è assistito a una serie di iniziative importanti, come un aumento del numero di aree protette e un ampliamento di quelle già esistenti o, ancora, lo sviluppo di centri per la riproduzione, dato che uno dei problemi principali per i panda è la loro scarsa fecondità».
Con una finestra di concepimento limitata a un massimo di 72 ore una singola volta l’anno, aumentare il numero di esemplari è, infatti, un’impresa. «Queste opere hanno portato a un incremento del numero di esemplari, ma il totale degli individui rimane basso: parliamo di circa 1.800 panda presenti in natura. Senza considerare che spesso questi animali non vivono in stato di completa libertà, ma sono seguiti e monitorati giornalmente, all’interno di recinti che, per quanto ampi, sono pur sempre recinti». Lontani, dunque, dall’assoluta «selvaticità», dice Cazzolla Gatti.

Non la specie, ma l’habitat
Quali sono, allora, le possibilità che il panda gigante torni a prosperare senza l’aiuto dell’uomo? «Oltre il 90% degli animali che nascono in un centro di riproduzione non può poi essere reintegrato in natura, perché troppo abituato all’uomo. Basti pensare quanto spesso i cuccioli vengono tenuti in braccio e allattati con biberon dal personale», evidenzia il professore.
«Una speranza potrebbe esserci qualora si arrestasse la distruzione del suo habitat. Il fatto è che in molte aree della Cina, anche in quelle protette, il conflitto uomo-natura persiste». Il problema, insomma va al di là dei panda. «Un progetto di conservazione non andrebbe intrapreso su una sola specie: l’approccio dovrebbe essere ecosistemico, non monospecifico», dice ancora Cazzolla Gatti. «Secondo recenti studi, nello stesso habitat dove si sta cercando di salvare il panda si è osservata paradossalmente una perdita di biodiversità: i leopardi, i lupi e tutta una serie di canidi selvatici sono quasi completamente scomparsi. A una minore vulnerabilità per una singola specie, per quanto sia essa emblematica, si contrappone un maggior rischio per moltissime altre. Per questo motivo, quello di Pechino è un falso successo», dice Cazzolla Gatti.
«Nel corso degli anni si sono fatti numerosi investimenti milionari in centri per la riproduzione artificiale del panda gigante, denaro che si sarebbe potuto sfruttare per altre politiche di conservazione, come la limitazione della deforestazione e dell’espansione delle industrie pesanti, cause principali della scomparsa di specie animali».
Il business dei panda
Da un punto di vista economico, però, salvare i panda è un vero e proprio affare. Secondo dati pubblicati sul «Corriere della Sera» nel 2018, il costo annuo per la conservazione di questo animale è di circa 225 milioni di euro. Le entrate, invece, derivanti da innumerevoli fonti quali il turismo nei centri di riproduzione, gli incassi dei «prestiti» di panda agli zoo di tutto il mondo, la creazione di servizi e simili, si aggirano attorno ai 2,6 miliardi.
Le risorse investite sono dunque più che decuplicate. «Fare soldi sulla conversazione biologica? Perché no - dice Cazzolla Gatti - Il problema è che buona parte dell’introito non viene utilizzato per migliorare ulteriormente le condizioni ambientali, ma va a finire in progetti di sfruttamento minerario o estrazione petrolifera, fatto che acuisce, e non poco, il problema della perdita di habitat».
Un cane che si morde la coda, insomma. «Per uscire da questo circolo vizioso, che va a peggiorare le possibilità di sopravvivenza del panda in natura, bisogna fare un passo indietro - torna a sottolineare Cazzolla Gatti - Il progetto di conservazione dev’essere ripensato in funzione dell’ecosistema intero».