Il poncho di papa Francesco e il futuro della Chiesa

Forse non lo abbiamo compreso appieno, storditi dal vortice di «infodemia» che travolge il bello e il brutto, il reale e l’irreale, l’utile e inutile, ma papa Francesco in carrozzina nella basilica di San Pietro – con la canotta spessa, le cannule nasali, i pantaloni neri, il poncho a righe – ci ha consegnato l’ennesima immagine icastica del suo pontificato, probabilmente quella che ne racchiude molte, se non tutte. Il prete argentino in mezzo ai fedeli, anche molti visitatori, frequentatori e passanti della Chiesa, comunque essere umani che nella Chiesa si ritrovano. Il prete argentino con la croce di ferro e il nome di Francesco, che venne dalla «fine del mondo», non dorme nell’austero palazzo Apostolico, ma nella più essenziale residenza di Santa Marta. Il prete argentino ricoverato in ospedale per quasi un mese e mezzo, sopravvissuto due volte alla morte come hanno rivelato poi i medici curanti. Il prete argentino che ha riformato la Curia, rovesciato le antiche abitudini, che ha tentato di spalancare (davvero) le porte di San Pietro agli ultimi, circondato da nemici e soprattutto da falsi amici alla ricerca di un ecumenismo globale nel rispetto di tutte le religioni.
La comunicazione vaticana, quella ufficiale, che arriva dopo la comunicazione adottata spontaneamente e in autonomia da Jorge Mario Bergoglio, sta sempre lì a sottolineare i miglioramenti, i progressi, le speranze, il ritorno alla normalità, gli incontri in agenda, la firma dei documenti. Fa il suo mestiere. Con Francesco così nudo nella straordinaria dignità di un anziano di 88 anni, l’altro giorno, è riaffiorato alla mente un breve saggio sulla «malattia» nelle sacre scritture, proposto all'inizio della pandemia da Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti che è diventata una lettura spesso necessaria durante il pontificato di un prete gesuita. Nel breve saggio, se così possiamo definirlo, si mette in connessione la malattia con la sofferenza, con il peccato, con la preghiera, col mistero della vita. A metà è citato il re Ezechia secondo il racconto del profeta Isaia: «Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e pregò il Signore dicendo: ''Signore, ricordati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi''. Ed Ezechia fece un gran pianto». Certamente papa Francesco ha camminato dietro (non davanti, ci permettiamo) al Signore con fedeltà e con cuore integro e ha compiuto ciò che è buono ai suoi occhi. Proprio per non disperdere la fatica di questi anni di pontificato, il prete argentino ne ha compiuti appena dodici, potrebbe pensare di consegnare alla Chiesa la lettera che ha già scritto e che rassegna le sue dimissioni. No, non c’è bisogno di ricordare quanto sia traumatico per la Chiesa sopportare la rinuncia di un Papa. È successo di recente con Joseph Ratzinger. Non c’è bisogno di ricordare quanto sia complessa per il Vaticano la gestione parallela di un Papa in carica e di un Papa emerito. E neppure c’è bisogno di ricordare le questioni in sospeso e le controversie irrisolte dentro le Conferenze episcopali nazionali (ne è prova, clamorosa, il rinvio della assemblea italiana per profonde divergenze sul testo da approvare riguardo al «ruolo delle donne» e alla «comunità omosessuale»). Non c’è bisogno di ricordare nulla a Bergoglio. C’è soltanto da chiedersi con tono fortemente dubitativo: per la Chiesa secondo Francesco, per preservarla, per custodirla, per proiettarla nel futuro, è meglio proseguire con un Papa in queste condizioni – oggi fra l'altro Francesco è stato in preghiera a Santa Maria Maggiore – oppure è meglio eleggere un nuovo Papa nel nome di Bergoglio con Bergoglio in vita? Il profeta Isaia potrebbe saperlo, noi aspettiamo di saperlo.