L’anniversario

Il ricordo resta vivo nei bosgnacchi di Srebrenica

Sono passati esattamente 25 anni dall’uccisione di oltre 8.000 bosniaci musulmani per mano delle truppe di Ratko Mladic e sotto gli occhi dei caschi blu dell’ONU - La commemorazione si svolge nel rispetto delle norma anticoronavirus
Red. Online
11.07.2020 15:09

In Bosnia-Erzegovina alcune centinaia di persone stanno raggiungendo il Cimitero memoriale di Potocari, alle porte di Srebrenica, per commemorare le oltre ottomila vittime del genocidio compiuto 25 anni fa sulla popolazione bosniaca di fede musulmana (o bosgnacca) dalle truppe guidate dal generale Ratko Mladic. La commemorazione quest’anno si svolge nel rispetto delle misure restrittive e di sicurezza imposte per la pandemia del covid-19. Oltre ai familiari delle nove vittime i cui resti verranno tumulati oggi, è ammesso un numero limitato di persone per evitare il contagio. Si tratta delle vittime del massacro i cui resti sono stati identificati negli ultimi 12 mesi.

Al rito funebre di sepoltura delle nove vittime, le cui spoglie sono state ritrovate in una delle 70 fosse comuni, presenzieranno solo i familiari. La vittima più giovane tra quelle che verranno inumate oggi era Salko Ibisevic che nel 1995 aveva 23 anni, mentre il più anziano è il settantenne Hasan Pezic.

I fatti da quel luglio 1995

Venticinque anni fa in questi giorni l’Europa visse una delle pagine più nere della sua storia recente. Fra l’11 e il 18 luglio 1995 venne infatti perpetrato il genocidio di Srebrenica, una delle atrocità più sconvolgenti della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995), che costò la vita a 8.300 persone secondo le cifre ufficiali, mentre secondo altre fonti locali gli scomparsi sarebbero più di diecimila.

In quei giorni le truppe serbo-bosniache, agli ordini del generale Ratko Mladic, entrarono nella città di Srebrenica e massacrarono la popolazione musulmana. Quando i serbo-bosniaci irruppero in città, oltre 40.000 abitanti fuggirono verso la base dell’Onu di Potocari, a nord del centro urbano. Circa 7000 persone riuscirono a entrare nell’area della base, presidiata da un centinaio di caschi blu olandesi che avrebbero dovuto difendere la città, dichiarata dall’Onu zona protetta. Gli altri si accamparono fuori.

All’arrivo dei serbo-bosniaci i caschi blu non intervennero, mentre Mladic fece separare gli uomini da donne e bambini, che furono deportati. Gli uomini - secondo le testimonianze di sopravvissuti e secondo l’atto di accusa del Tribunale penale internazionale (Tpi) per la ex Jugoslavia che con una sentenza dell’aprile 2004 ha stabilito per primo che fu genocidio - furono passati per le armi. I corpi degli uccisi nelle esecuzioni di massa vennero sotterrati in fosse comuni.

A migliaia fuggirono nelle campagne circostanti e le milizie serbo-bosniache aprirono una gigantesca caccia all’uomo e ne catturarono migliaia: in gruppi di 200-300 furono messi in fila e fucilati. «In quattro ore il 16 luglio ne abbiamo uccisi 1200’’, racconterà anni dopo davanti al TPI Drazen Erdemovic. «Ho visto decine di uomini sgozzati in un campo di grano - ha raccontato Abid Efendic - ho visto teste mozzate, ragazze violentate da decine di soldati».

L’allora leader politico dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic (oggi in carcere all’Aja condannato all’ergastolo) e il capo militare Ratko Mladic (in attesa all’Aja del processo d’appello dopo una condanna all’ergastolo in primo grado) dopo il massacro cantarono vittoria: con Srebrenica i serbi avevano conquistato oltre il 60% della Bosnia.

Ma quella strage convincerà l’allora presidente americano Bill Clinton a intervenire dopo che per oltre tre anni l’Europa aveva guardato distaccata e divisa la mattanza alle porte di casa. In pochi mesi Washington riesce a portare al tavolo di Dayton (Usa) musulmani, croati e serbi, ma il risultato si limitò a sancire la divisione etnica creando un paese diviso in due entità, la Repubblica Srpska, che comprende anche Srebrenica, e la Federazione croato-musulmana.

La tragedia ha pesato a lungo e continua a pesare sulla coscienza della comunità internazionale. Per Srebrenica, nell’aprile 2002 il governo olandese di Wim Kok decise di dimettersi dopo che l’Istituto per la documentazione di guerra riconobbe la responsabilità dei politici e dei caschi blu olandesi nel non aver saputo impedire il massacro. Il comando olandese dirà poi d’aver chiesto l’intervento degli aerei Nato a difesa della città.

Nell’ottobre del 1999 l’allora segretario dell’Onu Kofi Annan ammise le responsabilità: «La tragedia di Srebrenica peserà sempre sulla nostra storia».