Il retroscena

Israele e l'arma (a doppio taglio) dell'uccisione mirata

Lo Stato Ebraico, sin dalla sua creazione, ha fatto ampio uso dell'eliminazione programmata dei suoi avversari
©ABEDIN TAHERKENAREH
Marcello Pelizzari
31.07.2024 13:32

Uccisione mirata. In gergo tecnico, consiste nell’eliminazione programmata di un avversario preventivamente identificato. È una pratica, questa, cui Israele ha fatto ricorso sin dalla sua creazione, nel 1948. Non sempre, invero, con la necessaria efficacia o la precisione che richiede un'operazione del genere. Basti pensare alle polemiche e alle discussioni, nel corso dei decenni, legate al rapporto fra avversari uccisi e vittime fra i civili. Grazie allo sviluppo, nel corso degli anni, delle tecnologie militari e al perfezionamento dei servizi segreti, fra cui il Mossad, lo Stato Ebraico ha quasi sempre raggiunto il suo scopo: far fuori un nemico. 

Nelle ultime ore, Israele ha ucciso il numero due di Hezbollah Fuad Shukr e – secondo l’Iran – il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh. Contribuendo all’escalation nella regione e aggravando il rischio di una possibile guerra totale in Medio Oriente. Lo Stato Ebraico, nell’ambito della guerra contro Hezbollah in particolare, ha fatto ampio ricorso a queste uccisioni mirate. Nel 1992, ad esempio, un missile israeliano colpì e uccise Abbas Moussaoui, il carismatico capo del movimento sciita libanese, mentre viaggiava con la moglie e il loro figlio di 6 anni nell’est del Libano. Nel 2008, scrive fra gli altri Le Monde, Imad Moughnieh saltò in aria assieme alla sua automobile a Damasco, dove viveva. Capo militare e cervello di Hezbollah, sul suo conto pesavano numerosi attentati fra cui quello contro l’Ambasciata americana a Beirut nel 1983.

Israele, pur mettendo a nudo le défaillance in termini di sicurezza interna dell’organizzazione filo-iraniana, in tutti questi anni non è mai riuscito a indebolire o a sradicare Hezbollah. Ottenendo, al massimo, degli effetti a corto termine. Dopo Moussaoui, ricorda sempre Le Monde, arrivò Hassan Nasrallah, stratega di primissimo piano capace, durante la sua direzione, di tenere testa a Israele durante la guerra del 2006.

Un discorso analogo può essere fatto per Hamas, in grado – ogni volta – di rialzarsi e riorganizzarsi. Di trovare, soprattutto, un’unità senza precedenti dopo ogni uccisione mirata subita. Nel 2004, per dire, Israele uccise la guida spirituale dell’organizzazione, Ahmed Yassine, oltre a molti dirigenti di alto livello, fra cui Abdelaziz Al-Rantissi. Uccisioni che, invece di indebolire Hamas, contribuirono allo scoppio della seconda Intifada. Anche perché, al posto dei leader deceduti, subentrarono altri uomini forti. Altrettanto se non più determinati. Uno su tutti: Yahya Sinwar, l’attuale capo di Hamas a Gaza, il cervello degli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023. Detto in altri termini, con le sue operazioni specifiche Israele rifila un colpo all’avversario ma, al contempo, lo galvanizza.

Hezbollah, tornando al Libano, nacque sulla scia della rivoluzione islamica in Iran e in risposta all’invasione israeliana del Libano nel 1982. Dal 7 ottobre scorso, con la ripresa degli scontri lungo il confine fra Hezbollah e Israele, molti quadri dell’ala militare del movimento sono stati eliminati dall’esercito israeliano. Non sempre, ancora, con precisione chirurgica. Ma sfruttando, questo sì, l’efficacia e l’efficienza delle reti di informazione dello Stato Ebraico, oltre alla capacità delle forze di sicurezza isareliane di colpire in profondità e, soprattutto, al di fuori dei propri confini. Di qui l’accusa, mossa ad esempio dai palestinesi, di praticare «terrorismo di Stato».