Medio Oriente

Israele, ecco la prima risposta: un raid nel cuore di Beirut contro Fuad Shukr

Le forze di difesa israeliane prendono di mira il numero due di Hezbollah, responsabile del massacro di dodici bambini drusi a Majdal Shams: «È stato ucciso»
©Hussein Malla
Nello Del Gatto
30.07.2024 23:30

La risposta di Israele è arrivata. Un attacco del Paese ebraico in serata al quartiere meridionale di Beirut di Dahiyeh ha preso di mira Fuad Shukr, ritenuto da Tel Aviv il responsabile del massacro, sabato scorso, dei dodici bambini drusi nel campetto di calcio a Majdal Shams. L’uomo, secondo le Forze di difesa israeliane, è stato ucciso. Due, in totale, le vittime.

La tensione è sempre più alta e le diplomazie sono in campo per tentare una de-escalation. L’ONU ha aperto un canale con Beirut e Gerusalemme per evitare che si cada in una guerra globale. Il gruppo sciita, in tarda mattinata, aveva dichiarato ad Al Jazeera che «la leadership della resistenza deciderà la forma e la portata della risposta a qualsiasi potenziale aggressione».  

Risposta che fa temere il peggio. Anche se precedentemente, nonostante minacce dirette pure del suo leader Nasrallah, Hezbollah non aveva dato seguito agli attacchi. Era successo a gennaio quando Israele uccise a Beirut il numero due di Hamas al Arouri; era successo quando a Damasco fu colpito l’appartamento che ospitava le guardie rivoluzionarie. Ci fu una risposta iraniana che attaccò Israele e questi rispose. Poi non successe più nulla. Uno a uno, palla al centro.

Dopotutto, quella tra Israele e Hezbollah, pur se viene indicata come guerra a «bassa intensità», ha il suo grave bilancio di vittime, l’ultimo sul versante israeliano oggi, un trentenne ucciso da razzi piovuti, tra gli altri, sul Kibbutz HaGoshrim. Questa uccisione ha portato a 25 i civili morti nel conflitto e 19 i militari; sul fronte libanese, al Jazeera parla di almeno 543 morti tra miliziani di Hezbollah e civili, oltre a una ventina di vittime in Siria, con almeno 385 membri di Hezbollah uccisi, di diverso ordine e grado, e poco meno di trecento tra militanti degli altri gruppi uccisi in raid in Libano e Siria. Numeri importanti, che vanno ad aggiungersi a quelli degli attacchi. Secondo the Armed Conflict Location and Event Data Project, organizzazione internazionale che monitora le guerre, sono 7.400 quelli registrati da entrambe le parti, con quelli israeliani che dovrebbero essere 6.142, il resto di Hezbollah.

L’attacco di sabato a Majdal Shams che, nonostante le prove anche visive messe in campo da Israele, Hezbollah continua a dire di non aver compiuto, è stata, per il Paese ebraico, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Anche se le dodici piccole vittime non erano cittadini israeliani e la loro città si trova nell’area del Golan che Israele ha conquistato nel 1967 e annesso nel 1981, l’attacco ha segnato il punto di non ritorno per Israele, che questa sera ha reagito tentando di colpire il responsabile di quel massacro. 

Cosa accadrà ora non è chiaro. Quello di oggi potrebbe essere anche un attacco mirato e isolato anche perché a quanto sembra Israele, secondo indiscrezioni, vorrebbe infliggere un duro colpo a Hezbollah senza trascinare il Medio Oriente in una guerra totale. Si potrebbe decidere per alcuni giorni di combattimenti e attacchi mirati.

La preoccupazione resta alta, anche perché in caso di conflitto con Hezbollah, è difficile che non entrino in gioco l’Iran e i suoi sodali. È stato lo stesso presidente iraniano Masoud Pezeshkian a dire che «ogni possibile attacco israeliano al Libano avrà gravi conseguenze per Israele».

Molte cancellerie europee hanno invitato i loro cittadini a lasciare il Libano, diverse compagnie aeree hanno bloccato i voli su Beirut, anche se l’aeroporto funziona normalmente nonostante sia indicato come uno dei possibili obiettivi israeliani.

«C’è tempo e spazio» per la diplomazia, ha detto il consigliere americano per la sicurezza nazionale John Kirby spiegando che la guerra tra Israele e Libano non è inevitabile. Gli USA non credono che l’attacco a Majdal Shams possa finire in una escalation e fanno sapere che non ci sarà alcun cambiamento nella decisione di invio di armi a Israele e che il Paese ebraico ha il diritto di difendersi da Hezbollah.

Israele sa che Hezbollah non è Hamas. Ha una capacità bellica e un armamento notevoli, può contare su un arsenale di razzi fino a 500 chilometri che potrebbero colpire qualsiasi obiettivo in Israele. E, soprattutto al nord, l’Iron Dome, il sistema antimissile israeliano e gli altri messi in campo, si sono dimostrati meno precisi che in altre zone. Senza contare che l’esercito israeliano, stremato da quasi dieci mesi di guerra a Gaza, potrebbe avere problemi a gestire due conflitti del genere. Una guerra in Libano sarebbe molto più difficile e pericolosa logisticamente di quella a Gaza e comporterebbe il rischio del pieno coinvolgimento iraniano.

Se con Gaza Teheran ha offerto assistenza e armi prima dell’inizio della guerra, con il Libano il discorso è diverso. Il flusso di aiuti e armamenti sarebbe più continuo.

Alle varie minacce, si sono aggiunte anche quelle di Istanbul. Erdogan ha detto alla riunione del suo partito che è possibile attaccare Israele come fatto in Libia e in Nagorno Karabakh. Ma il sultano di Ankara mente sapendo di mentire. Non solo l’esercito turco non ha le capacità belliche per superare quello israeliano, ma creerebbe un preoccupante precedente considerando che il Paese è membro della NATO. Un attacco a Israele, che vanta nell’Alleanza Atlantica Paesi molto vicini, isolerebbe totalmente Ankara. Il disegno di Erdogan è chiaro: l’anno scorso ospitò i leader palestinesi tentando una loro riappacificazione; a maggio ospitò il leader di Hamas, Ismail Hanyeh, che negli ultimi mesi ha visitato solo Turchia e Iran. Ankara ospita diversi leader di Hamas ai quali ha dato la cittadinanza e ha offerto ad Hanyieh la sede del suo ufficio politico qualora il Qatar dovesse decidere di allontanare il gruppo che controlla Gaza. Erdogan, che ha in corso un piano di islamizzazione della laica Turchia, ha il recondito desiderio di controllare il terzo sito più sacro per l’Islam, l’unico al di fuori dell’Arabia Saudita: la Spianata delle Moschee di Gerusalemme, ora controllato da una organizzazione giordana. È a quello che punta il presidente turco, anche come rinascita del fu Impero Ottomano che ha regnato su Gerusalemme per quattrocento anni.

A Erdogan non conviene inimicarsi Israele anche dal punto di vista economico. Le federazioni del commercio turche valutano in circa sette miliardi di dollari la perdita dovuta al blocco commerciale deciso dal sultano. La Turchia probabilmente rivedrà il suo obiettivo di esportazioni di fine anno da 267 miliardi di dollari a 260 miliardi di dollari se la questione commerciale con Israele non verrà risolta entro un paio di mesi. Israele è stato il 13. mercato di esportazione più grande per la Turchia nel 2023, ricevendo lo scorso anno il 2,1% delle esportazioni turche. Lo scorso anno Ankara è stata la quinta partner commerciale per le importazioni di Gerusalemme, senza contare che Israele e Turchia condividono importantissimi giacimenti di gas.

La speranza è che, se non i trattati di pace, almeno l’economia possa mettere fine alle minacce.