Israele, Hamas, Hezbollah: che cosa cambia la morte di Sinwar?
A poco più di un anno dalla strage del 7 ottobre, il numero uno di Hamas, Yahya Sinwar, è morto. Definito da Israele come l'architetto della sanguinosa offensiva compiuta contro i kibbutzim israeliani, il 62.enne – a lungo inseguito nei tunnel di Gaza – si trovava in cima alla lista dei bersagli di Tel Aviv. Ma la sua uccisione è arrivata, in un certo modo, a sorpresa: non è, infatti, in un attacco mirato che Sinwar è stato abbattuto, quanto più in un incontro fortuito con le truppe dell'IDF. Decapitata l'organizzazione islamista nella Striscia, il cessate il fuoco appare, comunque, un miraggio. A poche ore dalla conferma dell'uccisione di Sinwar, il premier israeliano Benjamin ha affermato che la guerra continuerà fino alla liberazione degli ostaggi e al raggiungimento degli obiettivi militari israeliani.
Fra passato e futuro, la regione è destinata a vivere in eterno conflitto? Ne abbiamo parlato con Lorenzo Kamel, professore di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Torino.
Prof. Kamel, quando abbiamo parlato con lei in luglio, le avevamo chiesto quali ripercussioni potesse avere
l’assassinio di Haniyeh sui negoziati per il rilascio degli ostaggi e un
cessate il fuoco a Gaza. Potremmo fare la stessa domanda, ora, con l’uccisione
di Sinwar. Ma l’argomento "negoziati" fa ancora parte della lista delle priorità?
«Il ministro
degli Esteri Israel Katz ha intimato "tutta la popolazione civile di Gaza" ad "andarsene immediatamente"; il
ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha sottolineato che gli
obiettivi prioritari sono "l’occupazione [di Gaza], la costruzione di
insediamenti [a Gaza] e incoraggiare il maggior numero possibile di palestinesi
a emigrare". Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, ha più volte sostenuto
che Israele dovrebbe "incoraggiare l’emigrazione volontaria dei palestinesi" da
Gaza, mentre la deputata del partito Yesh Atid, Merav Ben-Ari, ha affermato che "I bambini di Gaza se la sono cercata". Il
cosiddetto "Piano dei generali" mira ad affamare e sfollare Gaza nord: è quello
il principale obiettivo dell’amministrazione Netanyahu, non gli ostaggi né un
cessate il fuoco».
E dall’altra parte? Dopo la morte di Sinwar, Hamas addolcirà le proprie condizioni per un cessate il fuoco? Cambierà qualcosa per la popolazione palestinese?
«È improbabile. La leadership di Hamas,
o ciò che resta di essa, è pienamente consapevole del fatto che arrendersi
significa di fatto accelerare tanto la propria morte quanto il pieno controllo israeliano su tutta la Striscia di Gaza. In altre parole, sanno di avere poco o
nulla da perdere. Si noti che tra la fine di
settembre e il 6 ottobre 2023, un sondaggio condotto da Arab Barometer (Università di Princeton) in
Cisgiordania e Gaza mostrava che solo il 29% degli abitanti della striscia
sosteneva Hamas. La larga maggioranza degli interpellati criticava in modo
netto la leadership inaffidabile e le condizioni di povertà dovute anche alle
politiche di Hamas. Non solo: una maggioranza altrettanto ampia si era espressa
a favore dell’autodeterminazione di entrambi i popoli e contro le ideologie
promosse da Hamas. Un anno e molte
decine di migliaia di morti più tardi, è probabile che i dati siano diversi».
L'attenzione internazionale, nelle ultime settimane, si è concentrata più a nord, in Libano. Qui, il numero di vittime civili sta aumentando, così come sta lievitando il numero di strutture distrutte. Il Libano rischia di trasformarsi in
una nuova Gaza?
«È
un processo già in atto ma, anche qui, le radici vengono da lontano. Il 31 ottobre di 76
anni fa venne perpetrato il massacro di Hula, un villaggio libanese
conquistato dall’esercito israeliano senza incontrare alcuna resistenza. Quarantacinque persone inermi vennero mitragliate all’interno di un edificio: il tetto venne
fatto poi esplodere sopra le loro teste. Il principale responsabile del
massacro, Shmuel Lahis, ricevette un’amnistia, assumendo in seguito prestigiosi
incarichi, incluso il ruolo di direttore dell’Agenzia ebraica. L’anniversario
di questo mese rappresenta un esempio tra molti altri: Qadas, Ebel Al-Qamh, Saliha e diversi altri villaggi locali vennero
segnati da storie più o meno simili. Hezbollah deve smettere di lanciare
missili e artiglieria verso Israele: lo stesso vale a parti inverse. Channel 4
UK e Bloomberg hanno documentato che tra l’8 ottobre 2023 e l’inizio del mese
scorso, il rapporto di attacchi tra Israele ed Hezbollah – missili e
artiglieria – è stato di 5 a 1. Cinque attacchi israeliani per uno di Hezbollah.
Infine, tra il 2007 e il 2022 anni sono state documentate 22.355 violazioni
dello spazio aereo libanese da parte dell’aereonautica israeliana. Hezbollah
rappresenta un grave problema, ma senza contesto si rischia di abbracciare letture
facili, ideologiche, che parlano alla pancia – e dunque agli istinti – delle
persone».
Ultimamente si è tanto discusso sulla serie di attacchi compiuti dalle forze israeliane nei
confronti dell’UNIFIL, le forze di pace dell’ONU, accusate da Tel Aviv di fungere da scudo umano per Hezbollah. Che ruolo aveva UNIFIL nella
regione? Lo ha rispettato?
«La risoluzione 1701 mirava,
tra l’altro, a impedire a Hezbollah di operare nell’area a sud del fiume
Litani: ciò non è avvenuto. Al contempo, le autorità libanesi accusano Israele
di non essersi ritirato del tutto dal territorio libanese, a cominciare dalle
Fattorie di Sheba’a, e di aver continuato a violare lo spazio aereo libanese.
Questo per dire che le obiezioni possono essere, e sono, molte. Resta il fatto
che l’UNIFIL rappresenta un’importante forza d’interposizione: i precedenti in
Bosnia, prima del massacro di Srebrenica, del Ruanda e quelli legati a Sabra e
Chatila nel 1982, ci ricordano quanto pericoloso sia quando uno degli attori
coinvolti chiede di non vedersi imporre limiti alle proprie azioni. Nota personale: conosco bene gli archivi storici dell’esercito israeliano a Tel
Hashomer e posso dirle che tanto il quartier generale del Mossad, quanto le
basi e gli archivi a cui facevo riferimento sono circondati da edifici e
quartieri densamente popolati. Utilizzando la pericolosa logica adottata da
alcuni in Libano e a Gaza, ciò renderebbe i civili degli scudi umani. È una logica, per l’appunto, inaccettabile, come lo è anche a Gaza e a
Beirut. Tanto più che i palestinesi sono sovente utilizzati come scudi umani
dalle forze israeliane durante le loro operazioni militari (pratica recentemente documentata da un'indagine del New York Times, ndr)».
Per approfondire la storia della regione, ascolta il nostro podcast: La Terra complessa
Finito, in questi giorni, in secondo piano, l'Iran rimane un attore importante nel conflitto.
«Si possono avere opinioni molto diverse su ciò che sta accadendo
tra Israele e Iran, ma è bene partire da un fatto storico: per secoli l’Iraq ha
arginato l'influenza dell'Iran in Medio Oriente. Gli stessi attori che hanno
ridotto in macerie l’Iraq e consentito la crescente influenza di Teheran, oggi
urgono la comunità internazionale di arginare l’influenza di Teheran nella
regione».
Proprio gli
Stati Uniti hanno posto, a inizio settimana, un ultimatum di 30 giorni a
Israele per il miglioramento della situazione umanitaria a Gaza. Questo, o fare i conti con un possibile embargo sulle armi. Un aut aut la cui credibilità, stimano molti analisti, pare già compromessa. È davvero così?
«È un'uscita di facciata, il gioco delle parti: Washington non vede
Gaza come una priorità. Il premier Netanyahu mira ad
allargare il conflitto, perché Israele ha l’intelligence e un chiaro vantaggio
militare, perché c’è un vuoto politico negli Stati Uniti e in virtù del fatto
che la Marina statunitense è stazionata nel Mediterraneo. Le autorità
israeliane e quelle statunitensi potrebbero sfruttare il momento per attaccare
con forza l’Iran e provare a cancellare definitivamente il programma nucleare
iraniano. Va detto che per molti nella regione questo è un po’ un paradosso.
Israele è l’unica potenza nucleare della regione e gli Stati Uniti sono stati
l’unico Paese ad aver usato bombe nucleari contro civili, per dare un segnale
ai sovietici. Vero: alcuni leader iraniani hanno utilizzato frasi criminali che
vanno stigmatizzate. Ricordo al contempo, tra molti altri esempi, che il
ministro israeliano Amichai Eliyahu ha proposto di utilizzare l’arma atomica
contro Gaza (ne avevamo parlato qui, ndr). Il
vicepresidente della Knesset, Nissim Vaturi ha sostenuto che l’obiettivo è
“cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della Terra”. Se ci fermiamo alle frasi e alle
minacce reciproche, nessuno degli attori coinvolti ne esce bene».
Gli
alleati di Israele, anche i più stretti, sembrano convinti della necessità di
arrivare a un cessate il fuoco, ma – come detto – Benjamin Netanyahu ha già annunciato dopo la
morte di Sinwar che la guerra proseguirà. Torniamo con la domanda che le abbiamo posto in luglio: come se ne esce?
«In
un’intervista andata in onda l’11 marzo scorso, Ehud Barak, già primo ministro
d’Israele, ha dichiarato che se fosse nato a Gaza, se fosse stato palestinese,
sarebbe probabilmente stato un terrorista. È forse questo l’unico punto di
contatto che c’è tra il militare più decorato nella storia dello Stato
d’Israele, ovvero Barak stesso, e l’ex capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, la
cui famiglia venne espulsa da al-Majdal: villaggio che venne raso al suolo
dalle forze israeliane nel 1948 e che oggi fa parte della municipalità di
Ashkelon. Pace e sicurezza saranno sostenibili solo quando si capirà che non
esiste una soluzione militare a un problema che è prima di tutto politico».
Lo
stesso vale per il fronte libanese ed Hezbollah?
«Quando
nel 1982 l’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon invase il
Libano, le sue truppe dovettero attraversare la parte meridionale del Paese. La
popolazione locale, a chiara prevalenza sciita, accolse i soldati israeliani in
modo molto favorevole. Erano infatti percepiti alla stregua di “liberatori”
impegnati, tra gli altri obiettivi, a contrastare l’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP), accusata di aver trasformato l’intera area
in una sorta di “Stato nello Stato”. Nelle
parole di Uri Avnery, un protagonista di quei giorni, né Sharon “né alcun altro prestò
molta attenzione agli sciiti […] ovvero la componente più vessata e indifesa
della popolazione locale. Le forze israeliane, tuttavia, prolungarono la loro
permanenza [per 18 anni]. Gli sciiti impiegarono poche settimane per
comprendere che Israele non aveva alcuna intenzione di lasciare l’area. Fu
proprio allora, per la prima volta nella loro storia, che decisero di
ribellarsi” e organizzarsi».