Medio Oriente

«Israele in Libano? Legittima difesa, ma l'uso della forza deve essere proporzionato»

Con il fallimento di un nuovo tentativo di de-escalation dell'ONU, emerge più forte la domanda: la comunità internazionale non può far altro che osservare il conflitto allargarsi in Medio Oriente? Ne abbiamo parlato con Marco Sassòli, professore onorario all’Università di Ginevra, esperto di diritto internazionale
©Mohammed Zaatari
Giacomo Butti
27.09.2024 06:00

«Si sta scatenando l'inferno». Così, all'Assemblea generale delle Nazioni Unite riunita a New York, il segretario generale António Guterres ha descritto l'escalation in corso nella regione a cavallo fra sud del Libano e nord di Israele, dove il conflitto tra Hezbollah e Stato ebraico è sempre più vicino allo sfociare in guerra aperta. Decine di migliaia di civili, israeliani e libanesi, sono stati costretti a lasciare le proprie case, mentre bombardamenti e lanci di razzi, da una parte all'altra del confine, continuano senza sosta. Nella notte mercoledì e giovedì, Stati Uniti e Francia hanno sostenuto, nell'ambito di una riunione d'emergenza del Consiglio di sicurezza ONU, un cessate il fuoco temporaneo di 21 giorni tra Israele e il gruppo islamista: una tregua che faccia spazio – questo era il piano –  a negoziati più ampi. La risposta del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non si è fatta attendere: «Continueremo a combattere con tutte le forze».

Con il fallimento di un nuovo tentativo di de-escalation dell'ONU, emerge più forte la domanda: la comunità internazionale non può far altro che osservare il conflitto allargarsi in Medio Oriente? Ne abbiamo parlato con Marco Sassòli, professore onorario all’Università di Ginevra, esperto di diritto internazionale.

Le difficoltà internazionali

«È tempo di una soluzione al confine tra Israele e Libano che garantisca sicurezza e protezione per consentire ai civili di tornare alle loro case: lo scambio di fuoco dal 7 ottobre, e in particolare nelle ultime due settimane, minaccia un conflitto molto più ampio e danni ai civili». La dichiarazione congiunta rilasciata ieri dal presidente statunitense Joe Biden e dall'omologo francese Emmanuel Macron evidenzia la concreta preoccupazione, da parte della comunità internazionale, per la situazione al confine fra i due Stati. Come propiziare, però, la svolta? «Non sarà una risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU a portare un cessate il fuoco al confine fra Israele e Libano», comincia Sassòli. «Washington potrebbe imporre le proprie ragioni su Israele, ma per tanti motivi non lo fa: al momento ci si è sempre fermati agli appelli». Fermare le armi tra lo Stato ebraico e Hezbollah, del resto, non cambierebbe il quadro generale: «Un cessate il fuoco limitato alla frontiera con il Libano difficilmente sarà accettato dal gruppo islamista: Hezbollah ha giurato di continuare il lancio di razzi contro Israele finché Tel Aviv non fermerà la guerra a Gaza. La dichiarazione di Stati Uniti e Francia – pur menzionando la necessità di portare avanti i negoziati per la Striscia – non pone un cessate il fuoco come condizione per l'altro. Eppure, sebbene giuridicamente i due conflitti non siano legati, politicamente lo sono».

Il conflitto con Hezbollah e quello con Hamas sono politicamente legati. Il gruppo libanese non accetterà un cessate il fuoco se prima non verrà fermata la guerra a Gaza

Insomma, la proposta in arrivo dal Palazzo di vetro di New York pareva destinata al fallimento, già prima del niet di Netanyahu. Anche perché per Gaza la situazione è ancora più complessa: «Hamas dice di voler distruggere Israele, mentre Israele non vuole porre fine alla guerra nella Striscia finché Hamas non sarà totalmente sconfitto». Il problema, spiega Sassòli, è che l'idea che si possa cancellare completamente l'organizzazione «è un'illusione. Hamas ha il sostegno di parte della popolazione palestinese non per le crudeltà commesse contro gli israeliani, ma perché è visto come l'unica forza che possa opporsi all'occupazione». Per eliminare Hamas, spiega quindi l'esperto, bisogna andare alla radice del problema: «Una soluzione del conflitto deve passare dalle questioni aperte, quali l'occupazione della Cisgiordania, lo status di Gerusalemme e così via». Tutti punti, questi, «contenuti nel parere consultivo della Corte internazionale di giustizia (CIG) che, recentemente, ha deciso che la presenza israeliana nei territori palestinesi occupati deve avere fine, in quanto andata oltre quanto concesso secondo il diritto umanitario a una potenza occupante. La CIG ha stabilito che Israele non solo occupa i territori palestinesi, ma li ha, de facto, annessi, con colonie e appropriazione di risorse naturali». Una situazione, questa, che «rappresenta una violazione del diritto internazionale sull'uso della forza, anche se in legittima difesa come nel caso del 1967. Uno Stato può occupare un Paese – come hanno fatto gli Alleati con la Germania alla fine della Seconda guerra mondiale – ma non può annetterlo». L'Assemblea generale ONU, spiega Sassòli, ha sostenuto il parere della CIG con una risoluzione, con la quale ha chiesto un ritiro israeliano entro un anno: «La Svizzera si è astenuta, perché afferma che non ci siano garanzie sufficienti sul fatto che Israele, anche in caso di ritiro, non rischi di subire altri attacchi dagli ex territori occupati». In questi ultimi mesi, «l'Assemblea generale ONU ha emesso risoluzioni che chiedono anche un cessate il fuoco a Gaza, ma queste non sono vincolanti. Vincolanti sono invece le risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU, ma su quest'organo pende costantemente il veto degli Stati Uniti, che hanno sempre protetto Israele da imposizioni esterne».

La riunione in Svizzera

Intanto, l'ONU ha dato mandato alla Svizzera di organizzare una riunione, entro sei mesi, delle parti aderenti alle Convenzioni di Ginevra in relazione al conflitto in Medio Oriente. «Come già successo in precedenti conferenze degli Stati parte, la riunione servirà a stabilire un modo per far rispettare la Quarta convenzione di Ginevra (sulla protezione dei civili in tempo di guerra, ndr). Idealmente, si dovrebbe discutere anche della sua applicazione in Sudan, in Siria e negli altri Paesi in guerra. Ma la discussione, qui sarà limitata alla situazione dei territori occupati, dove la Convenzione effettivamente si applica». L'organizzazione dell'evento, specifica Sassòli, «è meno utile di quanto lo sarebbe stata mesi fa», prima del già citato parere consultivo della CIG. «Abbiamo già una dettagliata interpretazione giuridica della situazione. Secondo quanto suggerito dalla stessa Corte internazionale di giustizia, ciò che ora gli Stati terzi dovrebbero fare – ma nessuno fa, nemmeno la Svizzera – è applicare sanzioni contro le entità israeliane illegalmente impegnate nei territori palestinesi occupati. Ad esempio togliendo alle aziende che producono in queste aree i benefici degli accordi commerciali esistenti con Israele. Non si tratta, ovviamente, di boicottare Israele, ma le attività costruite negli insediamenti illegali ai sensi del diritto internazionale».

La Svizzera sostiene una soluzione a due Stati, israeliano e palestinese, che preveda un accordo sullo status di Gerusalemme e con confini basati sulla situazione nel 1967. Ma esattamente come nel voto sul parere della CIG, anche sull'organizzazione di questa riunione internazionale Berna ha deciso di astenersi. «La Svizzera farà quanto richiesto dall'ONU», ha sottolineato Sassòli, «ma ha la legittima preoccupazione che queste risoluzioni scarichino il problema solo su Israele. Invece la questione riguarda anche i palestinesi e il fatto che l'esistenza dello Stato israeliano deve essere da loro accettata». Ciò non toglie che le astensioni siano «basate anche su fattori di politica interna, con il Consiglio federale e il parlamento che hanno tenuto una linea pro-Israele, come fatto dalla maggior parte dei Paesi europei». 

Secondo la pratica degli ultimi 25 anni, Israele può esercitare il proprio diritto alla legittima difesa in Libano contro Hezbollah. Ma l'uso della forza deve essere proporzionato

Libano Stato sovrano

Con Sassòli torniamo sulla stretta, strettissima attualità. In Israele diversi politici appartenenti a entrambi gli estremi dello spettro politico hanno sostenuto, nell'ultima settimana, la necessità di una più ampia operazione in Libano, con un attacco di terra e la possibilità di creare una zona cuscinetto all'interno dei confini libanesi. Un'operazione, hanno affermato più personalità israeliane, giustificata dal fallimento, da parte del governo libanese, nell'esercitare la propria sovranità sulla regione meridionale, controllata da Hezbollah. «Tradizionalmente la Carta delle Nazioni Unite è un trattato tra Stati e quindi la legittima difesa esiste solo contro uno Stato. Oggi, tuttavia, è largamente accettato che anche un gruppo armato possa minacciare sufficientemente uno Stato perché questo eserciti il proprio diritto di legittima difesa». È il caso, ad esempio, dell'operazione americana avviata dopo l'11 settembre 2001 in Afghanistan, «un'operazione accettata dal Consiglio di sicurezza ONU e dall'Assemblea generale, o più recentemente in Siria contro lo Stato islamico». Insomma, «secondo la pratica degli ultimi 25 anni, Israele può esercitare il proprio diritto alla legittima difesa in Libano contro Hezbollah». L'unico problema, spiega Sassòli, riguarda la proporzionalità. «La legittima difesa deve sempre essere proporzionata. Israele afferma che Hezbollah vuole eliminare lo Stato ebraico e che, quindi, l'uso della massima forza è giustificato». Ma non funziona esattamente così: «La forza va proporzionata alle capacità militari di Hezbollah. E l'organizzazione islamista non ha i mezzi per distruggere Israele. Ciò che conta è ciò che Hezbollah può fare, non ciò che Hezbollah dichiara di voler fare. Può, sì, compiere attacchi contro certi obiettivi – e lo ha fatto – ma a questa minaccia può solo essere data, da Israele, una risposta proporzionata». In questo momento, conclude Sassòli, «l'operazione israeliana sembra superare questo limite, anche se il fatto che decine di migliaia di civili libanesi abbiano lasciato le proprie case – come fatto negli scorsi mesi anche da decine di migliaia di civili israeliani – non comporta necessariamente una violazione del diritto umanitario: è ovvio che in presenza di un conflitto, anche di uno combattuto secondo le regole, la popolazione fugga in cerca di salvezza. Israele, in questi giorni, ha avvisato la popolazione libanese del pericolo, come richiesto dal diritto umanitario». Ma il problema sta nelle modalità di comunicazione: «Un avviso di evacuazione deve fornire indicazioni precise alla popolazione riguardanti un attacco concreto. Non si può dare un avviso che domandi l'evacuazione di "tutto il sud del Libano", come successo. Il bersaglio militare non può essere un'intera regione, e questa è una problematica riscontrata anche a Gaza».