L'intervista

Kosovo, «la guerra lascia ferite, ma la Svizzera promuove il dialogo»

Parla l’ambasciatore Raimund Kunz, già capo dello Stato maggiore della Presidenza svizzera dell'OSCE
© KEYSTONE (EPA/VALDRIN XHEMAJ)
Luca Steinmann
23.11.2024 06:00

Parla l’ambasciatore Raimund Kunz, che martedì sera sarà in Ticino proprio per partecipare a un evento sui Balcani.

Ambasciatore, 25 anni dopo la fine della guerra la situazione nel Kosovo resta tesa. Come mai?
«La guerra lascia ferite. Le violenze, i massacri e gli sfollamenti avvenuti nella guerra del Kosovo hanno provocato fratture che potranno essere superate dopo decenni, forse solo dopo una generazione. Stanno continuando gli scontri, le tensioni e le separazioni tra i gruppi etnici che lo abitano, in particolare tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. La sicurezza della popolazione non può essere garantita senza la presenza delle truppe NATO, che tutt’ora pattugliano il territorio per prevenire i conflitti. Un tentativo di normalizzazione è stato fatto nel 2023 con gli accordi di Bruxelles e Ohrid. La loro attuazione è però deludente: le tensioni sono addirittura aumentate dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Il Kosovo oggi è uno Stato multietnico con una costituzione e istituzioni democratiche, ma ciò non basta. Una pace duratura richiede anche “cultura democratica”, cioè comunicazione aperta, dialogo, riconoscimento reciproco tra i gruppi etnici e rispetto reciproco delle diverse identità. Tale cultura deve ancora essere costruita. Solo allora sarà possibile una nuova identità di nazione multietnica, che garantisca una pace duratura e indipendente dall’esterno».

Venticinque anni dopo che bilancio possiamo dare ai bombardamenti della NATO che posero fine alla guerra?
«Tutt’oggi ci sono interpretazioni discordanti. Manca un processo di chiarimento storico condiviso. Ai tempi l’UE, l’OSCE e l’ONU furono impotenti di fronte alla dinamica della guerra. L’ONU non approvò l’intervento della NATO, che pose fine alla guerra e costrinse Milosevic a ritirare le sue forze dal Kosovo. La fine della guerra venne generalmente accolta con sollievo. Tuttavia, fino ad oggi le sue cause e i suoi sviluppi vengono continuamente reinterpretati alla luce delle rispettive esperienze e dei propri punti di vista».

Le tensioni etnico-nazionali e il crescente nazionalismo nella regione si sovrappongono oggi alle influenze esercitate sia dall’Occidente che dalla Russia e dalla Cina. I Balcani sono un luogo di confronto geopolitico tra Oriente e Occidente?
«Sì, la storia continua. La regione balcanica è sempre stata esposta a conquiste, interferenze, antagonismo di potenze e imperi esterni e alle espulsioni e migrazioni di popolazioni. Il confine tra l’Impero Romano d’Oriente e quello d’Occidente è in gran parte identico a quello tra la cultura greco-serba ortodossa nella parte occidentale e meridionale dei Balcani e la cultura romano-cattolica nei Balcani nord-occidentali. Dopo l’islamizzazione dovuta all’occupazione ottomana, lo stesso confine ha nuovamente svolto un ruolo simile. L’avanzata russa verso Istanbul a partire da Pietro il Grande ha messo in primo piano la richiesta di identità nazionali per avere un proprio Stato. Con questa situazione si spiegano gli influssi dell’Occidente, della Russia e ora anche della Cina sulla regione, nonché l’orientamento delle diverse parti della regione verso le rispettive potenze esterne alla regione. Non dobbiamo dimenticare la Turchia, che Erdogan considera una potenza regionale che opera nel modo più indipendente possibile e si basa sulla tradizione islamica e ottomana. La politica dell’Occidente nella crisi jugoslava ha rafforzato la parte albanese/musulmana. Oggi Ankara intrattiene principalmente rapporti culturali con la parte islamica della regione, in particolare con Sarajevo. Se questo sistema di vincoli delle diverse comunità balcaniche ad attori esterni cambierà, dipenderà da un lato dalla capacità dell’UE di pacificare la regione attraverso l’integrazione e, dall’altro dalla capacità della regione stessa di creare un’identità più indipendente dall’esterno. In questo scenario che ruolo gioca la Svizzera? L’impegno svizzero nei Balcani non è solo figlio della nostra tradizione umanitaria di Stato neutrale ma anche del fatto che la diaspora balcanica fa parte della nostra società. È anche una questione che ci riguarda direttamente, risolvere i conflitti in quella regione è una nostra priorità. In quest’ottica, nel corso degli anni Berna ha promosso molte iniziative: già nel 1991 offrì i suoi buoni uffici alla Croazia e alla Serbia invitando i presidenti Tudman e Milosevic per un incontro riservato, che purtroppo fu inutile. In Bosnia, come presidente dell’OSCE nel 1996, la Svizzera ha svolto un ruolo di primo piano nell’attuazione dell’Accordo di Dayton e nello svolgimento delle prime elezioni. Per quanto riguarda il Kosovo, nel 2005 la Svizzera ha compiuto sforzi particolari affinché i negoziati sul suo futuro status iniziassero nel quadro dell’ONU. Trascorsi altri due anni in cui non veniva raggiunto un accordo tra Serbia e Kosovo quest’ultimo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza nel 2008. Da allora la Svizzera sostiene gli sforzi di normalizzazione dell’UE nei Balcani occidentali con progetti di cooperazione che mirano a promuovere il dialogo tra i gruppi etnici, per i quali organizza diverse piattaforme permanenti, rafforza la cooperazione interetnica attraverso progetti economici ed ecologici e pone l’accento sul confronto con il passato incentrato sulle vittime. Con il suo impegno a favore dell’indipendenza del Kosovo, la Svizzera è riuscita a conquistare stretti legami e la massima credibilità nel Paese».

La diaspora balcanica in Svizzera può svolgere un ruolo nella risoluzione delle tensioni e dei conflitti nei Paesi di origine?
«La grande diaspora balcanica e quella kosovara in Svizzera rappresentano un vantaggio da non sottovalutare. Questa diaspora comprende molto bene come la Svizzera, grazie alla sua “cultura democratica”, funzioni come uno Stato multiculturale con quattro lingue nazionali. I membri di questa diaspora, con i loro numerosi legami familiari con il Paese d’origine, possono svolgere un ruolo di “influencer”, cioè contribuire a promuovere un’identità multiculturale in Kosovo e nei Balcani su modello del Paese in cui vivono. Sono sicuro che lo facciano e ritengo che la Svizzera potrebbe sfruttare molto di più questo potenziale per influenzare la regione in modo costruttivo». 

La Svizzera è impegnata da 30 anni nell’accoglienza dei profughi dai Balcani, nella mediazione diplomatica e la ricostruzione dei Paesi della ex Jugoslavia, in particolare in Kosovo. Il Ticino ha accolto un numero importante di immigrati e profughi balcanici che sono parte integrante del nostro Cantone. Nell’ambito del progetto “Un ponte fra il Ticino e i Balcani”, la Fondazione Federica Spitzer organizza un incontro che si svolgerà martedì alle ore 20 nella Sala Congressi di via Municipio 2 a Muralto. L’incontro “Kosovo: una ferita rimarginata?” vivrà di due testimonianze dirette e vedrà l’intervento dell’ex ambasciatore Raimund Kunz.