Guerra in Ucraina

La Crimea è la chiave di tutto

La penisola che separa il Mar Nero dal Mar d’Azov è da secoli snodo di potere e influenze geopolitiche: chi la controlla diventa padrone degli equilibri di una regione strategica - Mosca l’ha strappata a Kiev nel 2014, nel silenzio delle cancellerie occidentali
© AP (Keystone)
Nello Scavo
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04.09.2023 06:00

Dalla Crimea parte gran parte degli attacchi contro l’Ucraina. In Crimea si trovano centinaia di bambini ucraini portati forzatamente nelle «colonie estive». Per la Crimea si battono ucraini e russi sapendo che da secoli la penisola è la chiave di tutto.

L’annessione

Putin se l’era annessa nel 2014 e quel giorno s’era capito che al Cremlino l’appetito vien mangiando. Molti nelle cancellerie occidentali fecero finta di nulla, immaginando che l’orso russo dopo aver afferrato il boccone prelibato sarebbe tornato in letargo, continuando a incassare le tariffe per l’esportazione di gas. Ma per capire la guerra in Ucraina bisogna decifrare la Crimea prima ancora del Donbass. Lo stato maggiore russo avrebbe voluto mettere in sicurezza la penisola conquistando Kherson, ma la liberazione della città ucraina, avvenuta nell’autunno del 2022, ha tolto dalle mappe di Mosca il «cuscinetto» a protezione della regione che ora l’esercito ucraino bersaglia giornalmente. La distruzione della diga di Kakovka, proprio nella regione di Kherson, ha rallentato la controffensiva ucraina, ha cambiato i connotati al territorio, ma non ha messo in sicurezza la Crimea, che dalla diga ucraina riceveva gran parte dell’acqua potabile.

La geografia

A decidere il destino di certi luoghi, più che gli eserciti è la geografia. La penisola si trova in posizione strategica tra il Mar Nero e il Mar d’Azov. Come fosse l’ago della bilancia, l’ampio distretto che si inoltra per centinaia di chilometri tra i flutti, è come un regolatore degli equilibri regionali. Chi la governa ha il controllo su un pezzo di mondo le cui influenze si estendono fino all’Oceano indiano, ma prima di tutto da lì si possono condizionare le priorità nelle relazioni con l’Europa orientale e il Caucaso. Il porto di Sebastopoli è insieme trampolino di lancio per i commerci e base navale militare. La penisola è stata teatro di battaglie epiche e già durante la guerra di Crimea (1853-56) si scontrarono l’Impero russo contro l’Impero Ottomano, che si contendevano il controllo dei Balcani e del Mediterraneo. Nel corso della Seconda guerra mondiale, l’Armata rossa combatté in Crimea contro i tedeschi che l’avevano occupata. Con il crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza dell’Ucraina, la penisola è passata sotto la sovranità di Kiev. Ma Mosca non ha mai rinunciato ad alimentare le tendenze separatiste facendo leva sulla sostituzione etnica avvenuta fin dall’epoca di Stalin, che spazzò via specialmente la minoranza tatara, fin quasi all’estinzione.  Dal 2018 questo processo è stato ripreso e oggi in Crimea il 60% della popolazione (circa un milione) ha passaporto russo, seguiti da ucraini (circa 600.000) e Tatari di Crimea (quasi 250.000).

Le persecuzioni

Vladimir Putin sta provando a completare l’opera. Dal 2014, dopo l’annessione unilaterale, è in corso il tentativo per la definitiva eliminazione dei tatari. «In particolare quelli che si oppongono all’annessione illegale della Crimea o che esprimono dissenso, sono soggetti a numerose e gravi violazioni dei diritti umani, persecuzioni, discriminazioni e stigmatizzazioni da parte delle autorità di occupazione russe», ha di recente denunciato l’Ufficio del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Nariman Dzelyal è il vice capo dell’organo rappresentativo dei tartari di Crimea, il Mejlis. Sette mesi dopo l’inizio della guerra è stato condannato a 17 anni di reclusione dalla Corte Suprema crimeana, con l’accusa di aver contribuito al sabotaggio di un gasdotto. I prigionieri politici di etnia tatara (musulmani originariamente turcofoni) sono almeno 200, sebbene le autorità crimeane non forniscano alcuna informazione. Dzelyal continua a respingere le accuse rivolte alla minoranza perseguitata da Mosca. Sulla penisola pesano le frustrazioni di Mosca per una guerra cominciata male e che non promette di finire meglio. Entro settembre dovrebbero svolgersi le elezioni regionali in tutta la Federazione russa. I sondaggi non ufficiali dicono che il consenso per Putin sia in calo, ma nessuno sa quantificare con precisione la contrazione dei «signorsì» al Cremlino. Nei giorni scorsi la magistratura ha sciolto alcune organizzazioni non governative russe che si occupano di monitorare la regolarità del voto e fatto arrestare i leader. Venerdì è toccato anche al giornalista premio Nobel Dmitrij Muratov, finito nella lista degli «agenti stranieri», al servizio dei nemici di Mosca. Le agenzie di stampa russe hanno citato il Ministero della Giustizia per dire che Muratov, direttore del giornale indipendente «Novaya Gazeta» (costretto ad essere editato all’estero), è uno dei numerosi cittadini russi aggiunti alla lista. Muratov si trova ancora in Russia dove rischia l’arresto perché sospettato di avere «creato e diffuso materiale prodotto da agenti stranieri e usato per diffondere opinioni negative sulla politica estera e interna della Russia su piattaforme internazionali».

L’elenco

Secondo la legge russa, gli individui e le organizzazioni che ricevono finanziamenti dall’estero possono essere dichiarati agenti stranieri. Novaya Gazeta e Muratov si sono guadagnati una reputazione all’estero per le loro inchieste spesso critiche nei confronti del Cremlino. In seguito Muratov ha messo all’asta la sua medaglia del Nobel per la Pace 2021, affermando che il ricavato di 103,5 milioni di dollari sarebbe stato utilizzato per aiutare i bambini rifugiati dall’Ucraina.  Tra gli altri cittadini russi inseriti nell’elenco degli «agenti stranieri» ci sono un altro giornalista che ha scritto articoli favorevoli all’Ucraina, un comico contrario alla guerra e uno storico della Cecenia, dove la Russia di Putin ha schiacciato gli insorti in due guerre postsovietiche. 

Un ponte che scricchiola

Tutto questo pesa sulle sorti del conflitto e della Crimea. La Russia non controlla completamente nessuna delle quattro regioni in cui si vota – Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson –, che insieme alla Crimea costituiscono quasi un quinto dell’Ucraina. Nella penisola gli attacchi di Kiev condotti contro i ponti e le infrastrutture militari hanno messo in crisi il turismo. Strano a dirsi, ma migliaia di russi nonostante la guerra e incentivati dalle rassicurazioni della propaganda putiniana, hanno attraversato il ponte Ponte di Kerč, noto in Russia come «Il ponte di Putin», fatto costruire in meno di 4 anni dal 2014 al 2018 per collegare la Crimea al suolo russo bypassando i territori ucraini. Ora il doppio viadotto, stradale e ferroviario, è pressoché inservibile.  E da simbolo del potere di zar Vladimir potrebbe divenire l’effigie di un sistema che sotto i colpi della guerra e dopo la corrosione innescata dall’ammutinamento dei Wagner e poi dall’eliminazione di Prigozhin,  esprime la lenta eutanasia del putinismo. Un rischio che il Cremlino non può correre, pena la restituzione della Crimea e la fine di Vladimir Putin.

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