«La guerra civile in Etiopia rischia di favorire i terroristi islamici in Somalia»

Dopo aver raggiunto lo storico accordo di pace con l’Eritrea nel 2018 il premier etiope Abiy Ahmed è alle prese con la ribellione interna del Tigray. Un conflitto che ha già messo in fuga 25 mila civili e rischia di infiammare l’intera regione. Sulle conseguenze di tale grave crisi abbiamo intervistato il professor Alessandro Leto, buon conoscitore della realtà africana.
Quali le cause di questo ennesimo conflitto africano?
«Occorre ricordare che dal 2018 con l’ascesa al potere del nuovo premier Abiy Ahmed c’è stato un cambiamento epocale nella leadership dell’Etiopia che passa dai tigrini (gruppo etnico presente sia in Etiopia che in Eritrea ndr) agli oromo. I tigrini non hanno vissuto bene questo passaggio di poteri e non si sono riconosciuti nei principi di inclusione e coesione portati avanti da Abiy Ahmed. A ciò va aggiunto che le elezioni amministrative, importanti in uno Stato federale come l’Etiopia, previste per la scorsa primavera sono state rinviate a causa della COVID, ma la regione del Tigray le ha volute fare ugualmente e le ha vinte il partito dominante, di origine tigrina, in questa regione del nord. Il Governo centrale non ha però riconosciuto l’esito del voto e dopo una serie di scaramucce verbali con le autorità locali ha inviato nel Tigray un governatore, che non ha tenuto conto in alcun modo delle rivendicazioni locali, e un nuovo capo della polizia».
Come ha reagito il Governo locale del Tigray?
«Il Governo del Tigray ha esacerbato le tensioni attaccando alcuni centri abitati in prossimità del confine tra Tigray e Amhara. Ciò ha portato l’esercito etiope ad attaccare questi ribelli, chiamati Fronte per la liberazione del popolo Tigray (Flpt), attivi nel nord del Paese. La vicina Eritrea dal canto suo ha messo a disposizione dell’esercito etiope, anche se lo nega, la base militare di Assab per far decollare droni destinati a colpire gli arsenali del Flpt. I ribelli tigrini per ripicca hanno lanciato missili di precisione su Asmara, capitale dell’Eritrea».
Ora vi è il rischio di internazionalizzare il conflitto?
«Questo è l’obiettivo dei guerriglieri del Tigray che sperano così di attirare l’attenzione della comunità internazionale su quella che i tigrini denunciano come una pulizia etnica nei loro confronti da parte dell’esercito etiope. Tuttavia per ora non si può parlare di un fenomeno in atto a livello strutturale».
L’Etiopia per far fronte al conflitto interno ha richiamato truppe dislocate in Somalia. Vi è il rischio che ulteriori ritiri da parte di Addis Abeba rafforzino gli estremisti somali di al-Shabaab?
«La crisi nel Tigray si sta rivelando un problema grosso e per questo il premier etiope ha inviato nella regione ribelle un numero di soldati superiore a quello preventivato inizialmente. Si tratta di truppe tendenzialmente di etnia oromo e per far questo ha ridotto il contingente Amisom (la missione dell’Unione africana in Somalia ndr) etiope. Con questo si indebolisce il fronte delle truppe non musulmane in Somalia che in qualche misura potevano rappresentare una barriera anche culturale nei confronti della proliferazione di al-Shabaab. Quindi con la riduzione del continenge Anisom in Somalia i primi a festeggiare sono i terroristi islamici di al-Shabaab e chi li sponsorizza sia a livello regionale che in ambito più esteso. In effetti se gli estremisti islamici resistono nel tempo è perché sono spalleggiati da partner che non si vedono ma che offrono ai terroristi accesso a logistica, informazioni e risorse».
Che ruolo gioca l’Egitto nella crisi etiope, viste le rivalità tra i due Paesi nella conquista della leadership in ambito regionale?
«L’Egitto ha la nota disputa con l’Etiopia a causa della captazione delle acque del Nilo Blu. Ma tra i due Paesi vi è effettivamente una rivalità in ambito regionale, per cui per il Governo egiziano più l’Etiopia si indebolisce meno può alimentare l’ambizione di diventare una potenza regionale. Dopo il collasso del Sudan sono infatti Egitto ed Etiopia le due potenze che si disputano il primato nella regione».
Il premier etiope Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019, in che misura può essere ritenuto responsabile di questa nuova crisi interna?
«La responsabilità è sempre in capo al comandante, quindi Abiy Ahmed dal punto di vista formale ha delle responsabilità perché chi comanda ha sempre questo onere. Dal punto di vista oggettivo penso però sia corretto considerare che se il premier etiope avesse potuto evitare un’escalation lo avrebbe fatto volentieri. È altrettanto vero che per come la crisi si è evoluta dal punto di vista dell’abilità gestionale da parte delle autorità del Tigray, sia nell’escalation militare sia con la volontà politica e anche mediatica di internazionalizzare il conflitto, appare chiaro che si tratta di un episodio pianificato. Quindi siamo in molti a considerare che ci sia una responsabilità condivisa in questa escalation».