«La guerra contro Hamas? Nulla a che fare con il genocidio»
Quest’anno la Giornata della Memoria si è celebrata in un contesto molto complesso e delicato, data anche l’accusa di genocidio promossa dal Sudafrica contro Israele per la sua operazione bellica contro Hamas nella Striscia di Gaza. Ne abbiamo parlato con l’ambasciatrice di Israele in Svizzera, Ifat Reshef, ospite a Lugano dell’Associazione Svizzera-Israele.
Ambasciatrice Reshef, partiamo dalla decisione della Corte internazionale di giustizia (CIG) di venerdì scorso: che cosa significa per Israele?
«In qualità di alto funzionario israeliano, sono stata profondamente delusa dalla decisione della CIG di non archiviare il caso in cui il Sudafrica accusa Israele di aver violato la Convenzione per la prevenzione del crimine di genocidio. La decisione è stata presa oltretutto alla vigilia della Giornata internazionale della Memoria dell’Olocausto, un appuntamento particolarmente simbolico per il popolo ebraico. La Convenzione sul genocidio è stata redatta per prevenire atrocità simili a quelle commesse contro il nostro popolo durante la Seconda guerra mondiale. Israele è stato uno dei primi Paesi ad aderirvi. La guerra che Israele sta combattendo contro Hamas a Gaza non ha nulla a che fare con il genocidio. Hamas è un gruppo terroristico che ha lanciato attacchi indiscriminati contro la popolazione civile israeliana, uccidendo centinaia di civili innocenti. Israele sta combattendo per difendersi da questa minaccia e non ha alcuna intenzione di commettere atti di genocidio. Stiamo facendo tutto il possibile per garantire che i civili a Gaza ricevano la necessaria assistenza umanitaria. L’unico limite a tale assistenza è rappresentato da Hamas stessa, che impedisce a Israele di consegnare alimenti, rifornimenti e attrezzature mediche. La decisione della CIG - che non ha peraltro chiesto la cessazione delle ostilità , riconoscendo di fatto a Israele il diritto di difendersi - è un’ingiustizia e dimostra la mancanza di comprensione della complessità del conflitto israelo-palestinese».
Nel fine settimana a Parigi i capi delle forze d’intelligence USA, israeliani, egiziani e del Qatar si sono riuniti per trovare una soluzione alla questione degli ostaggi e negoziare una tregua. Un cessate il fuoco è imminente?
«Non lo so e non so che cosa emergerà dai colloqui di Parigi, le notizie sono contraddittorie. So che c’è un serio tentativo di trovare una soluzione, ma al di là di tutte le buone intenzioni, i problemi sul tavolo restano gravi. Hamas ha commesso atti terribili contro i civili israeliani il 7 ottobre, ma ci ha anche messo di fronte a una serie di dilemmi. A partire da quello di liberare gli ostaggi israeliani in mano a Hamas, e il tempo sta per scadere. Poi c’è il dilemma degli obiettivi militari, le operazioni in corso hanno bisogno di un’estensione».
Torniamo un momento sul termine «genocidio» che viene usato sempre più spesso. Non c’è un rischio di banalizzazione?
«C’è in effetti un rischio di disprezzo e di indebolimento di questo importantissimo termine giuridico. A questo proposito, devo dire che ciò che ha detto il Sudafrica non è solo oltraggioso e scandaloso, ma lo consideriamo anche un’“accusa del sangue” (blood libel, ndr) contro lo Stato di Israele. Quando si accusa lo Stato ebraico di aver commesso un genocidio, si sta dando il via libera ad altri per attaccare sia gli israeliani, sia gli ebrei. Il genocidio è l’accusa più grave che si possa fare, e quella rivolta contro Israele è completamente falsa. Penso che il Sudafrica abbia mostrato mancanza di rispetto per la CGI, e certamente ha mostrato mancanza di rispetto per la Convenzione. Vorrei esortare il Sudafrica a ripensarci: se vogliono veramente aiutare il popolo palestinese, non dovrebbero aiutare Hamas, perché Hamas sta danneggiando il popolo palestinese».
Guardando ai possibili scenari post-guerra, quale idea sarebbe preferibile tra quella dei due Stati e quella dello statu quo?
«Ritengo che la discussione sulla soluzione a due Stati sia prematura in questo momento. Il popolo di Israele è ancora traumatizzato dall’attacco del 7 ottobre scorso, un massacro che a oggi il presidente Mahmoud Abbas non ha ancora denunciato. Inoltre, non credo che Hamas sia un partner affidabile per una soluzione a due Stati. Questa soluzione, tra l’altro, è stata proposta diverse volte in passato ai palestinesi ma è sempre stata rifiutata e senza una controproposta. Per quanto riguarda l’Autorità palestinese (ANP), non è chiaro se sarebbe disposta a tornare a Gaza nel caso in cui Hamas fosse sconfitto. Inoltre, l’ANP ha una lunga storia di corruzione e inefficienza. Credo che sia necessario un cambiamento radicale nella leadership palestinese prima che si possa pensare a una soluzione a due Stati. E i palestinesi devono dimostrare di essere disposti a vivere in pace e sicurezza con gli israeliani. In Israele, c’è un crescente consenso che la soluzione a due Stati non è più possibile con la leadership attuale dei palestinesi».
Presumendo che Israele e Palestina abbiano entrambi una ragion d’essere, come si può uscire da questo conflitto?
«Bisogna avere speranza. Penso che l’unica soluzione sia prima di tutto che Israele esca più forte da questa crisi. E lo faremo. Dio non voglia che Hamas possa prevalere, sarebbe una minaccia per Israele e per tutti i Paesi moderati e pacifici. Quindi, non stiamo combattendo solo per il bene di Israele, ma per un futuro sicuro e migliore per tutto il Medio Oriente, palestinesi compresi».
In conclusione, come vede il ruolo della Svizzera come possibile mediatore fra le parti in conflitto?
«La Svizzera, in qualità di membro non permanente nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, ha un ruolo molto importante da svolgere riguardo la situazione in Israele e a Gaza. Ci aspettiamo che tutti i nostri amici, compresa la Svizzera, sostengano solo i testi presentati al Consiglio che dicono la verità, ovvero che citano il 7 ottobre, che denunciano Hamas e che chiedono in modo univoco il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi».