L'analisi

La guerra corre sui cercapersone: così Israele ha colpito la comunicazione di Hezbollah

L'attacco, sebbene mai rivendicato, è stato globalmente attribuito a Tel Aviv: migliaia di esponenti del gruppo islamista feriti nell'esplosione dei dispositivi elettronici – L'esperto di tecnologia militare Mauro Gilli: «Un duro colpo per l'organizzazione» – Ma i nostri smartphone sono sicuri?
©Hassan Hankir
Giacomo Butti
19.09.2024 06:00

In Medio Oriente, da un paio di giorni ormai, l'attenzione dei media internazionali ha lasciato la guerra a Gaza per concentrarsi su qualcos'altro: l'attacco coordinato avvenuto fra Libano e Siria ai danni di esponenti di Hezbollah. Il bilancio dell'operazione – globalmente attribuita a Israele, sebbene Tel Aviv non l'abbia mai rivendicata – è, del resto, impressionante: l'esplosione contemporanea, martedì, dei cercapersone in dotazione ai miliziani del gruppo islamista ha portato, secondo le autorità locali, alla morte di una ventina di persone, oltre a circa 4 mila feriti. Ieri, poi, un attacco dalle modalità simili: l'esplosione simultanea di walkie-talkie ha ucciso, a Beirut e dintorni, un'altra ventina di persone, ferendone 450. Alcune delle detonazioni sarebbero avvenute dove si stavano si stavano svolgendo i funerali di quanti erano stati uccisi il giorno prima.

Probabilmente organizzate, secondo molti analisti, nientemeno che dai servizi segreti del Mossad, queste azioni – chirurgiche – devono ancora essere chiarite nelle loro dinamiche. Analizziamo il caso con Mauro Gilli, ricercatore associato al Politecnico di Zurigo ed esperto di tecnologia militare e politica internazionale.

Le ipotesi

Partiamo dall'inizio. Prima l'esplosione dei cercapersone, poi quella dei walkie-talkie. Che cosa è più probabile sia successo ai dispositivi usati dagli esponenti di Hezbollah? «Ci sono varie ipotesi, ma le più accreditate sono due. La prima vede all'origine dell'attacco una manomissione – un cosiddetto supply chain attack – avvenuta durante il processo produttivo o quello di fornitura. In un momento non ben definito di queste due fasi qualcuno avrebbe inserito nei cercapersone un dispositivo con un quantitativo molto limitato di un potente esplosivo, attivabile tramite segnale», spiega Gilli. «L'altra ipotesi è che la batteria di questi cercapersone sia stata fatta surriscaldare tramite un attacco informatico, fino a esplodere». Fra le due, le informazioni in nostro possesso premiano la prima: «Mi pare più probabile si sia trattato di una manomissione: un ipotetico surriscaldamento della batteria non avrebbe potuto causare esplosioni di questa portata e avrebbe, precedentemente, sprigionato del fumo, allertando chi era in possesso del cercapersone». Eppure, dai video disponibili online, sembra invece che l'attacco sia arrivato in modo improvviso. «Nessuno si è distanziato dai cercapersone e anzi, sembra che qualcuno l'abbia portato più vicino alla faccia dopo aver ricevuto un segnale». E non a caso molti esponenti di Hezbollah avrebbero riportato danni agli occhi. Analisi preliminari condotte dalle autorità libanese, ha rivelato nella serata di ieri l'AFP, sembrano confermare questa ipotesi: «I dispositivi contenevano materiali esplosivi».

Ma se di manomissione si è trattato, ancora più importante è la conseguente domanda: dove è avvenuta? «Da quanto emerso in queste ore, i cercapersone portavano il marchio dell'azienda Gold Apollo, una compagnia taiwanese che, però, si è subito distanziata dalla vicenda affermando di aver dato in licenza il proprio brand ad aziende terze che si occupano di tutto, dal design alla produzione. Chi si è occupato di produrre questi pagers, come vengono definiti in inglese, sarebbe dunque l'azienda BAC, basata a Budapest, Ungheria». I walkie-talkie, invece, sarebbero esemplari di IC-V82 dell'azienda giapponese ICOM, dal 2014 non più in produzione. Questi dispositivi, secondo fonti di sicurezza libanese citate da media israeliani, sarebbero stati acquistati cinque mesi fa insieme ai cercapersone. Un lotto unico che, oltre a rivelarsi letale, fornisce qualche spunto d'analisi: «È difficile stabilire in modo definitivo quando possa essere avvenuta la manomissione, se in fase di produzione o di spedizione. Ma il fatto che i walkie-talkie non siano da tempo in produzione e che essi siano arrivati a Hezbollah insieme ai cercapersone, fa propendere per la seconda ipotesi». Certo è che, mentre scriviamo, l'attribuzione delle responsabilità è tutta in divenire. Lo stesso governo di Taipei, tramite una nota del ministero degli Affari economici, ha fatto sapere nella serata di ieri che i cercapersone targati Gold Apollo hanno «solo una funzione di ricezione e una batteria incorporata»: «Non vi è alcuna possibilità di morte o lesioni causate da un'esplosione». Nessun commento, al momento, da ICOM.

Un duro colpo

Secondo il sito d'informazione Axios, che cita funzionari statunitensi, l'attacco israeliano sarebbe stato pianificato in caso di guerra totale con Hezbollah, ma la sua attuazione sarebbe stata anticipata per una logica di use it or lose it (usalo o perdilo): c'era il timore, è questa l'idea, che gli esponenti del gruppo islamista mangiassero la foglia. «Siamo, ancora, nel campo delle ipotesi, ma è chiaro che installare dell'esplosivo con un dispositivo per l'innesco in così tanti cercapersone comporti dei rischi». A livello probabilistico, spiega Gilli, «più passa il tempo e maggiori sono le possibilità che la manomissione venga scoperta». Forse messi di fronte alla scelta: mandare a monte l'operazione o anticiparla, i servizi segreti israeliani potrebbero aver scelto la seconda. Ma, con Hezbollah che giura vendetta, la mossa non rischia di avverare lo scenario, appunto, di una guerra totale? Forse, ma prima il gruppo islamista dovrà riprendersi, ci spiega l'esperto. «Possiamo solo attendere per vedere gli effetti di questa azione sull'ipotesi di un conflitto aperto. Certo è che gli attacchi di questi giorni rappresentano per Hezbollah un grande problema. È lecito supporre che quanti dotati di cercapersone fossero operativi di un certo livello, importanti per l'organizzazione almeno da un punto di vista logistico». Con l'attacco di martedì prima e quello di mercoledì poi, Hezbollah non solo si trova con migliaia di effettivi fuori gioco, ma «si trova, verosimilmente, privo di un sistema di comunicazione affidabile da utilizzare in caso di emergenza». Un duro colpo che, «almeno nel breve periodo, limiterà significativamente le capacità di Hezbollah». 

La riflessione

L'eccezionalità di quanto avvenuto negli ultimi giorni in Libano ne rende difficile pure la definizione. «Si è trattato di un attacco mirato, ma allo stesso tempo a tappeto», afferma Gilli. «In qualche modo l'operazione è riuscita a conciliare il concetto di larga scala con quello della precisione. Indubbiamente ha interessato anche dei civili, ma per quanto emerso in queste ore sembra che gli effetti collaterali siano stati limitati, forse anche grazie alla carica minima presente nei dispositivi». Certo è che un attacco simile non può aver lasciato indifferenti gli strateghi di tutto il mondo. Farà scuola? «La storia della guerra è una di misure e contromisure», risponde Gilli. Ciclicamente, ci spiega, l'essere umano ha abbandonato un'arma (o un'armatura) quando questa veniva superata da una nuova. «I cercapersone sono stati utilizzati al posto degli smartphone perché la posizione dell'utilizzatore non venisse tracciata, abbassando i rischi di attacchi missilistici mirati. La grande lezione odierna è che tale misura non è sufficiente per evitare operazioni di precisione».

Ma un attacco simile porta anche chi con la guerra non c'entra nulla a una riflessione: la tecnologia che tutti, in tutto il mondo, portiamo in tasca è troppo vulnerabile? L'ipotesi che i cercapersone siano stati fatti esplodere semplicemente surriscaldando la batteria ha portato, sul web, allo spopolare di una domande: qualche gruppo terroristico potrebbe, presto o tardi, minacciare la popolazione di far esplodere smartphone e dispositivi simili? «Si sono già verificati casi in cui attacchi hacker hanno provocato un surriscaldamento, ad esempio, dell'hard disk di un computer, compromettendone il funzionamento. È, appunto, la storia umana: quando emergono nuove tecnologie, i malintenzionati trovano modi per sfruttarle negativamente. Ma per gli smartphone il pericolo va circoscritto: un surriscaldamento dà segnali di avvertimento precisi e oggi, in linea generale, il rischio esplosione improvvisa non esiste».

E per quanto riguarda le manomissioni? È possibile che il caso induca aziende che si occupano di dispositivi tascabili – come i giganti degli smartphone, Apple e Samsung – ad applicare controlli extra per evitare l'introduzione, da parte di terzi, di dispositivi pericolosi e materiale esplosivo? «Non è da escludere che non solo le case produttrici, ma addirittura quanti si occupano del processo di spedizione, traggano insegnamento da questo attacco. I container utilizzati per l'invio dei dispositivi, ad esempio, potrebbero essere sigillati in modo da identificare immediatamente un'alterazione, un po' come si faceva nel Medioevo con la cera. Lo vedo, per alcuni settori, come una mossa assolutamente possibile».